MESSA, Close
I Messa sono una delle band che abbiamo sempre seguito con estrema attenzione, sin dall’esordio Belfry uscito per Aural Music, la stessa etichetta per cui hanno in seguito realizzato quel Feast For Water che ha saputo confermare le loro felici intuizioni nella ricerca di un tratto di immediata riconoscibilità pur se mai uguale a sé stesso.
Con il terzo disco cambiano varie cose, a partire dalla label, che diventa la finlandese Svart Records, a riprova dell’innegabile fiuto del boss di casa Aural nello scovare nomi interessanti da lanciare nel panorama internazionale, si pensi solo agli Ephel Duath, tanto per citare un caso esemplare su tutti. Proprio come la Aural, la Svart è una di quelle etichette che ama sfidare le convenzioni per andare a cercare artisti coraggiosi e capaci di infrangere regole prestabilite e vie di fuga troppo scontate, motivo per il quale appare casa perfetta per Close. L’altra novità è a livello musicale con un disco che riesce ad essere al contempo solido (vogliamo dire rock senza rischiare il linciaggio?) e allo stesso tempo contaminato da infiltrazioni su cui ci soffermeremo più avanti. Insomma, se la prova era quella di realizzare qualcosa che non ripetesse staticamente quanto detto negli album precedenti senza perdersi in sperimentalismi fini a sé stessi o vane dimostrazioni di apertura mentale un tanto all’etto, non possiamo che dichiarare la sfida vinta. Close è infatti il risultato del riuscito connubio tra un approccio classico (con i brani che si reggono sull’interazione tra la splendida voce di Sara e le trame musicali intessute da una squadra ormai a pieno regime, in grado di capire quando assecondarne le movenze e quando al contrario creare un contrasto) e la voglia di andare oltre e di sperimentare nuove combinazioni. Da questa base nascono pezzi dalle radici saldamente piantate nel doom ma con una spiccata attitudine ad aprirsi verso forme più estreme di metal o linguaggi di natura differente quali il jazz (esempio non casuale). L’elemento altro che va a disturbare la matrice sonora della band è questa volta una cifra etnica che guarda dritto al Medioriente e chiama in campo strumenti di quei luoghi per infondere nell’ascoltatore l’idea del viaggio e dell’immersione in aromi e profumi differenti da quelli che usualmente ci si aspetterebbe da una band doom. Insomma, succede che una realtà italiana innamorata di un genere tipicamente nordico e in forza ad una label finlandese finisca per tuffare la propria musica nelle acque del Mediterraneo, così che a momenti ho pensato al desert blues dei Tinariwen (ma ammetto di essere un semplice simpatizzante e non certo un esperto in materia). Come dicevamo poco sopra, si tratta comunque di un disturbo, di una spezia che aiuta a collegare i brani con un mood particolare ma non li stravolge né porta i Messa fuori rotta rispetto alle loro componenti essenziali, anzi proprio questa ossatura ormai solida permette loro di non ripetersi mai e di cercare nuove sfide con cui confrontarsi senza rischiare di risultare sopra le righe. Per quanto ci riguarda, prova del terzo disco superata grazie ad un vero e proprio viaggio musicale ricco di cambi di panorama e mai ripetitivo.