MAYHEM, Grand Declaration Of War 2018
Non ho mai avuto la sindrome da adorazione incondizionata nei confronti dei Mayhem. Questo per dire che De Mysteriis Dom Sathanas è sì un album fra i fondamentali, ma di quel periodo ce ne sono almeno altri dieci o dodici che prediligo. Quando comparve Grand Declaration Of War, per lo stesso motivo non sentii – come in apparenza tutti quanti – la necessità di lanciare l’accusa di tradimento o di scempio. Non voglio tirare in ballo le vicende dei Mayhem, causa ormai di orchiti pluriennali, mi interessa invece esaminare il momento fra il 1999 e il 2000, che ha coinciso con tanti cambi stilistici nelle band che avevano regnato nella Norvegia black metal: fu una fase in cui in cui il digitale, un certo tipo di produzioni coi controcazzi e l’ingresso di componenti elettroniche furono i nuovi mezzi per comporre i dischi a venire. I Dimmu Borgir, con Puritanical Euphoric Misanthropia, aggiunsero diligentemente al loro songwriting dei dettagli che li fecero schizzare sulle copertine di tutto il mondo, continuando allo stesso tempo a mantenere una certa genuinità musicale. Dagli Emperor tutti si aspettavano qualcosa in stile IX Equilibrium, invece Prometheus spaccò letteralmente la critica in due: l’anima sopraffina e classica di Ihsahn collideva troppo con quella death di Samoth e la formazione si era ormai già sciolta. Rebel Extravaganza dei Satyricon, dal canto suo, fu giudicato male per il suo essere progressivo, per il suo non essere né carne né pesce: in sostanza per aver avuto la colpa di essere arrivato dopo Nemesis Divina. Solo i Dødheimsgard con 666 International presero grandi voti, in modo direttamente proporzionale al loro cambio stilistico e inversamente proporzionale alle righe concesse loro dalle riviste… ma questa è un’altra storia.
Ora, mentre Prometheus e Rebel Extravaganza sono stati digestiti e ri-contestualizzati, l’album del nuovo millennio dei Mayhem non ha subito questo positivo processo d’invecchiamento. Jaime Gomez Arellano, produttore e ingegnere del suono, curatore delle nuove edizioni rimasterizzate di Paradise Lost, Ulver e tanti altri, ha deciso di riprendere in mano, per la Season Of Mist, i master originali di Grand Declaration Of War, pompandoli su quelle tonalità medio-basse delle quali secondo lui era carente e per questo scarso quanto a corporeità e spessore. Il risultato è qualcosa di non troppo dissimile dai vari progetti black metal che spopolarono fra il 2007 e il 2015; quel black metal dalle chitarre dissonanti tipo Deathspell Omega, Portal, Dodecahedron, Leviathan, Funeral Mist, Blut Aus Nord…
L’operazione portata a termine oggi in studio non ha potuto però correggere l’incorreggibile, e mi riferisco al dinamismo eccessivo e pasticciato dei riff di Blasphemer, sicuramente taglienti e che ogni tanto vogliono farsi eredi quel modo di suonare che aveva Aarseth/Euronymous, ma frammentari e troppo tendenti al progressive nel tentativo di costruire un racconto lungo il disco. Nel difficile concept di Grand Declaration Of War, infatti, i riff diventano dei leitmotiv che tornano in più tracce, ci sono dittici di brani che a volte durano neanche due minuti e il tutto può esser visto come una specie di colonna sonora apocalittica e post-bellica, martoriato e penalizzato però dall’egocentrismo di Hellhammer (ora come quella volta): sarà che non ho mai sopportato il suo modo di suonare, sempre troppo veloce, sempre alla ricerca d’inutili varianti e sempre fissato col trovare un ibrido fra il fusion più rapido e il metal più estremo. Insomma, anche se la produzione restituisce densità ai suoni, chitarra e batteria rimangono comunque problemi strutturali e non marginali (anche perché, ricordiamo, Arellano non ha la bacchetta magica).
Qualche buona idea c’è in questo lavoro, come appunto la declaration of war di “View From Nihil” (sia la parte 1 che la 2, con i rispettivi riff). La doppietta “A Bloodsword And A Colder Sun”, invece, che al tempo fu la più criticata per la somiglianza coi Nine Inch Nails (anche se tutti i metallari puntarono il dito verso Marilyn Manson), qui non ci guadagna, anzi: nella prima versione si poteva avvertire una certa distanza fra la produzione metal e quella elettronica, mentre ora rimane solo il momento più alieno e sperimentale di tutto l’insieme, con qualche variazione più estrema nelle due “Completion In Science Of Agony”. Peccato che, anche quando l’orecchio dell’ascoltatore riesce a seguire le trame non certo lineari di Blasphemer, arrivi puntualmente l’eccesso di Hellhammer a mandare tutto all’aria… ma anche questa cosa l’avevamo già sentita nel lontano 2000.
Ciò su cui rifletto, tuttora con l’interrogativo in testa, è se sia giusto rivalutare un disco di vent’anni fa solo perché ora ha preso il sound di dischi importanti apparsi successivamente. Mi chiedo poi quale sarebbe stata la sorte di Grand Declaration se fosse stato pubblicato dieci-dodici anni fa: sarebbe rimasto nell’anonimato, sepolto dagli album delle band più giovani che ho menzionato qualche riga fa, oppure, grazie alle tendenze sonore dell’epoca, qualcuno avrebbe apprezzato il songwriting di Blasphemer?