MATT ELLIOTT, The End Of Days
Matt Elliott è una sicurezza, il marinaio di un galeone che sopravvive alla tempesta lasciandosi trascinare a fondo e poi tornando a galla stremato, uno che suona da solo da vent’anni perfezionando ogni volta la stessa, esemplare, canzone di resa e splendore: il mondo è orribile, e poi si muore, lo sappiamo. Il punto è che abbiamo molto bisogno di farcelo raccontare, e che sono pochi gli artisti che si dedicano per una vita a perfezionare quest’arte nera, che certo non paga troppo né in termini di date o di successo, né di salute mentale.
I dischi di Matt Elliott sono un rito catartico in cui la violenza dell’uragano si sviluppa in un vortice di ripetizioni che dobbiamo per forza cavalcare, per riuscire a riemergere, per rielaborare tutto come in una lunga, faticosa seduta di psicoterapia.
The End Of Days racconta la morte in “Flowers For Bea”, lo sconforto per il tempo che ci scorre addosso in “Song Of Consolation”, il lento incedere di notti, giorni, stagioni e anni in “January’s Song”: la sensazione che le possibilità stiano esaurendosi, che si sia veramente arrivati alla fine dei giorni. Il racconto si dipana in poche, lunghe tracce, guidate dal suo stile chitarristico impossibile da confondere, screziato di venature spagnole ed echeggiante il rebetiko, il fado, ogni genere che porti con sé la stessa saudade che impregna i pezzi di questo disco, che possa servire a richiamare echi antichi di lamentazione. Gli arrangiamenti di piano e contrabbasso si stendono con una maestosità compositiva notevole e finora mai sperimentata, il sassofono, suonato dallo stesso Elliott, riesce a far passare la luce dalle crepe delle composizioni e a rischiarare l’oscurità, come nei Nigun o nei funerali di New Orleans, quando arriva la second line a ballare. La sensazione che ci rimane è quella di avere fatto un altro giro nel vortice, di essere andati ancora più a fondo, ma che questo ci abbia permesso di uscirne ancora più puri, con gli occhi ancora più aperti e uno strato in meno di pelle.