MASSIMO SILVERIO, Hrudja
Dalla Carnia, Massimo Silverio al suo esordio sulla lunga distanza. Quando si rimargina una ferita, la crosta che permette la guarigione è chiamata “Hrudja”, parola che titola il lavoro. La voce di Massimo, un sibilo acuto, si esprime fra rumori, storture elettroacustiche e respiri mozzati, in un disegno in bianco e nero che enfatizza e valorizza il suo lirismo in maniera elegante. Spesso il beat sottostante riprende un ritmo cardiaco che regolarizza la reazione fisiologica a una voce che invece rimane piana, sospesa, quasi fosse distante dal mondo terreno, in qualche modo angelica o aliena. La descrizione che Massimo (o chi per lui) dà del suo disco traccia per traccia dà il perfetto peso al suo lavoro: dalla severità del padre al gelo, l’amore che fa sentire la morte e il ritorno alla realtà, spietato e doloroso. Sogni, simboli ed enigmi per fissare nella memoria la fine e la perdita. Ma il calore, la luce e l’amore che abitano le stelle sono il futuro, la genesi, la madre.
Silverio prende dalla propria tradizione (la lingua, l’ambiente) e dagli standard (James Blake, i Radiohead) cercando e trovando sé stesso. È un percorso, una sofferenza che porta a una gravidanza tramite un viaggio-archetipo. Un percorso che a tratti si trasforma in preghiera, come nella splendida “Šcune”. Ma Hrudja è soprattutto un disco di suoni e impulsi, magicamente orchestrato da Manuel Volpe e con il contributo di Nicholas Remondino, che arriva elegante a chi ascolta, come se fosse suonato in guanti bianchi e struggente, come se la roccia della Carnia avesse sferzato le carni usando il sangue per vergare le note sul pentagramma. Hrudja colpisce, seduce e spinge ad approfondire sempre più la sua storia ed i suoi segni.