MASSIMO MARTELLOTTA, One Man Sessions Vol. 4
Ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido (liquido o gas) riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del volume del fluido spostato. Il principio di Archimede descrive il comportamento di un corpo all’interno di un fluido, prevedendone la sua capacità di galleggiare o affondare. Ed è dedicata proprio a questa legge della fisica la traccia d’apertura del quarto volume delle One Man Sessions (qui le recensioni degli altri capitoli) di Massimo Martellotta: il corpo immerso è il nostro cervello che riceve una spinta dal basso verso l’alto e galleggia nello spazio grazie a questa raccolta, sempre su livelli davvero buonissimi. Dopo le nuvole dei synth, il piano preparato e l’orchestra sinfonica, a questo giro di giostra si torna a un assetto più asciutto, dove è la chitarra ad esplorare panorami sottomarini, come una pillola da “Alice nel paese delle meraviglie” o da “Matrix”, sublinguale, istantanea, capace di capovolgere dimensioni, prospettive.
Chiudete gli occhi e alzate il volume, al resto ci pensa questo disco; il mistero blu delle profondità oceaniche inquieta perché siamo ospiti (personalmente buona parte della mia vita di natante è stata rovinata dalla visione adolescenziale de “Lo squalo”) e non si sa mai chi possa giungere da quel punto di fuga oltre il quale lo sguardo non può arrivare, ma dai pesci discendiamo e nell’acqua di nostra madre nasciamo. Questa raccolta suona dunque come un’esplorazione, terribile e sensuale, pericolosa e familiare, ma anche come un ritorno a casa, una casa psicologica e ancestrale: le meduse fosforescenti di “Archimede’s Principle” ci fanno capire in apertura che il viaggio sarà fertile, mille forme di vita ci attendono in questa discesa nei cieli rovesciati, coralli, polipi intelligenti e bellissimi, il bagliore del sole del mondo di sopra a fare cenno, a ricordarci da dove veniamo. È così bello e necessario però voltare le spalle alla realtà che ci perseguita sopra la crosta terrestre, e allora, superato il test di pressione (“Pressure Test”), collaudato l’assetto della macchina-corpo-testa-cuore, fugata ogni paura, possiamo proseguire, trattenendo il fiato. Il mondo che si allontana in “Apnea1”, tra languori di realtà che si fa sempre più piccina e un mood tra il fantascientifico e l’herzoghiano che non fa prigionieri: come un western nel wild blue yonder (“Twilight Zone”) o una “Odissea 3001” nello spazio dove a pilotare ci sono gli Air assieme ai Popol Vuh, a portarci ai confini della penombra e del crepuscolo. Modelli deterministici di decompressione costruiti su groove sbilenchi eppure perfettamente bilanciati (“Thalamann Algorithm”), altri prototipi di fuga all’infinito verso il basso, come blues siderali o scafi adagiati sul fondo del mare (“Apnea 2”, che curiosamente fa pensare a dei Radiohead alla deriva in oceani impossibili, poi “Apnea 3”, quasi una comunicazione radio che verrà ascoltata troppo tardi). Un’apnea eccessivamente protratta però comporta rischi di morte, come il blackout, quando il cervello scollega tutte le funzioni – tranne quelle vitali – nel tentativo di risparmiare ossigeno per le proprie cellule nervose. Proprio “Black Out Syndrome” si intitola la traccia di chiusura di questo lavoro: il cuore continua a pulsare e a diffondere il poco ossigeno rimasto nel plasma ai tessuti. Miracolosamente, anche questa volta sopravviveremo. Per poi tuffarci di nuovo, e provare la stessa fascinazione, la stessa paura. Un’immersione nelle tenebre profonde e bellissime dell’Io: un altro centro pieno per un musicista in fiamme, che in questa serie sta dando il meglio di sé.