MASSIMO FALASCONE SEVEN, Méliès
Dedicato a chi Terry Gilliam ha definito il primo grande mago del cinema, Méliès dei Massimo Falascone Seven è un’intrigante esperienza di quello che i francesi chiamerebbero cinéma pour l’oreille: otto audiometraggi liberamente ispirati ad altrettanti film muti del Maestro, in perfetto equilibrio tra scrittura e improvvisazione. Si tratta di un viaggio nella Luna, come il film del 1902, a sondare il lato nascosto del nostro satellite, tra alchimie imprendibili e incidenti dall’incedere teatrale che lasciano il segno. “Parafaragamus”, scontrosa e brillante come una pietra ruvida e preziosa, apre subito le ostilità in medias res, dopo è la volta di avvincenti roulette all’insegna di una creatività sfrenata (la sarabanda quasi sulle orme dei Rova nella parte finale di “Rubber Head”, i fantasmi del suo incipit, come ombre di figure da film antesignani della fantascienza a venire) e di carillon di un altro secolo, quando si aveva ancora il candore e lo spazio nell’anima per immaginare il mondo che sarebbe venuto. Ora che, con Mark Strand, il futuro non è più quello di una volta, fa bene tuffarsi in questo Novecento tra storia e mito e perdersi al ritmo di marcette a cui manca solo il ghigno beffardo di Daevid Allen (“Moving Train”), mentre i musicisti imbastiscono tessiture solidissime e fluttuanti, intrise di epica saturnina, metafisica, patafisica.
Il settetto vede coinvolti, oltre al leader a sassofoni, oggetti ed elettronica (per esempio il crackle box, un dispositivo che crea rumore ed è l’antenato dei marchingegni infernali creati per il circuit bending), anche Giancarlo Nino Locatelli ai clarinetti, Alessandra Novaga alla chitarra, Alberto Tacchini a piano, sintetizzatore ed elettronica, Silvia Bolognesi (protagonista dell’ultimo disco di Art Ensemble Of Chicago e anima di Fonterossa), Cristiano Calcagnile (batteria, percussioni, glockenspiel) e Filippo Monico (percussioni, bolle di sapone): l’organico tradisce già l’attitudine spericolata dell’ensemble, abilissimo nel tradurre in suono quest’idea di cinema come sogno; queste musiche, infatti, sembrano proprio appunti di attività oniriche, veglie assorte, attese, field recordings di incubi mai troppo spaventosi, richiami da un Aldilà filosofico e interiore, prima che reale. Molto incisivo il pianoforte di Tacchini (evidente in modo particolare in “Homorchestra”) che apre panorami e sfida chi ascolta, trovando sempre nuovi modi di esplorare il già esplorato; da un soliloquio raccolto fiorisce poi un dettato quasi canterburiano, impreziosito dai fiati e poi da meditazioni incoscienti sulle orme di Sun Ra (“Pensare è proprio come non pensare, perciò non devi pensare mai più”, diceva Kerouac), rincorse, fughe, fuochi d’artificio, fine.
Méliès, recita una cartella stampa intelligente, sobria e puntuale (lo sottolineo perché a volte capita di leggere, soprattutto a dire il vero in ambito non jazz, delle cose che fanno accapponare la pelle), è anche un luogo archeologico, in cui si possono trovare frammenti del pensiero musicale di chi ci ha preceduto, prediletti autori di un recente passato, le cui memorie costituiscono la base su cui si onda questa musica. Una musica forse non più – o non solo – d’avanguardia, che vuole consolidarsi in una moderna tradizione e resistere così alle scosse del tempo.
Le voglie di spazio, ovviamente, di “Luna Trip”, con i synth tra Richard Teitelbaum e David Durrah. Musica (non elettronica) viva, devota a una lunga storia di cosmonauti del pentagramma ma non per questo didascalica, anzi forte di una scrittura calibrata e di una bella attitudine selvatica ed ironica; una fitta, impenetrabile coltre di mistero avvolge queste otto composizioni, come un trucco cruciale e lievissimo che nasconde la vera faccia della realtà (“Maquillage”, prima psichedelica poi bandistica, poi mille altre cose), che infine, dopo lunghi corteggiamenti, appostamenti e malintesi, mostra il volto classico che di lei ricordiamo anche senza averlo mai saputo (“Left Alone/Sirene”, che da un inizio carico di soul, memore degli inni grondanti blackness di Rahsaan Roland Kirk, si inerpica poi su cime erte dove l’aria si fa sempre più rarefatta, oppure si inabissa in vortici di acqua scura, fino a sparire, che sia a un dito dalle nuvole, o nel mare che promette scomparsa e deriva).
Chiudono gli otto minuti di “Non Impossibile”, sulle orme di Alfred Jarry: “L’indisciplina cieca e di ogni attimo è la forza principale degli uomini liberi”. A questo punto attendiamo già il prossimo atto, per partire di nuovo in viaggio. Sebbene Méliés stesso fosse convinto che il lieto fine esistesse solamente nei film, in questo caso il disco smentisce l’artista a cui si è ispirato: dopo scaramucce, tempeste e marosi il cielo si rischiara e sorge un tema come una nenia da mandare a memoria, come una canzone che risvegli il bambino eterno che vive in noi, l’essere che è infinite possibilità e che tutto, quando cresciamo, cospira a reprimere; lieto e degno finale di un disco densissimo eppure abitato da una leggerezza calviniana, ennesima testimonianza della vitalità della musica creativa italiana non allineata.
Tracklist
01. Parafaragamus
02. Moving Train
03. Rubber Head
04. Homorchestra
05. Luna Trip
06. Maquillage
07. Left Alone / Sirene
08. Non Impossibile