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MASSIMO DISCEPOLI, The Right Place On The Wrong Map

MASSIMO DISCEPOLI, The Right Place On The Wrong Map

non sto in piedi e la terra non manca
io però cerco un’altra materia
a sostenere la geografia che porto
tatuata sotto la pianta dei piedi

(Antonella Bukovaz)

La foto in copertina ricorda vagamente i migliori dischi di marca Hubro, l’etichetta norvegese: è un semplice paesaggio a nord che – traducendo il titolo di questo disco, il secondo a proprio nome per il multistrumentista Massimo Discepoli – potrebbe anche essere il posto giusto sulla mappa sbagliata. Un concetto inesprimibile e contraddittorio, da smarrimento mentale. Proprio come le musiche di The Right Place In The Wrong Map, appena uscito per la personale DOF, che sta per “Depth of Field”: sette brani per 45 minuti di soffuse trame ambientali su cui poggia una batteria ornamento e/o struttura.

Massimo Discepoli (noto anche come Nheap) nasce infatti batterista. Il suo intento principale, una volte considerate le massicce dosi di elettronica e di sintetizzatori, le sparute note di piano e un basso appena percepibile, pare quello di traghettare delicatamente la batteria all’interno di mondi sonori imprevedibili; di creare un amalgama in cui, quella, non funga da mero agente ritmico, ma diventi strumento capace di suggerire brevi aperture melodiche, di fornire intrecci armonici, di aprire a nuove e possibili immagini musicali piuttosto che racchiuderle in una data cornice. Nulla di nuovo, direte voi con tutte le ragioni del caso. Eppure The Right Place In The Wrong Map ci restituisce la figura di un musicista che sfugge a un buon numero di cliché, nonché alle grinfie della ricerca timbrica fine a sé stessa. Si ascolti un pezzo come “Water Sequences”, con la sua struttura narrativa e quella frase sintetica che, ai secondi ascolti, agisce da vero uncino.

Nuvole ambientali, ombre di minimalismo (palesi in “Thin Border”), accenni post-rock ed evoluzioni pensose sussunte – mettiamo – dai Necks. In più lo stile di Massimo Discepoli, così pieno di interruzioni e di pause minime ma frequenti, ricorda da lontano gli ultimi esperimenti di Andrea Belfi; con un tocco che è sì più standard, ma anche più vaporoso, dispersivo e vagheggiante. Il lavorio sui piatti, indefesso e costante, dà ragione all’indeterminatezza di fondo che di questo disco è la cifra distintiva, quando dispiegata in un paesaggismo grigio e solitario, invernale, emozionante.