MARK VAN HOEN, Invisible Threads
“[…] un mondo in cui tutto sembra stabile e non è, in cui spaventose energie […] dormono di un sonno leggero”. (Primo Levi, in L’altrui mestiere)
I legami invisibili cui rimanda il titolo – Invisible Threads – del nuovo album di Mark Van Hoen, uscito a fine maggio su etichetta Touch e ispirato al racconto di Edgar Allan Poe Conversazione di Eiros e Charmion, fanno riferimento ai rapporti stretti e agli scambi intercorsi tra il musicista e produttore inglese e un buon numero di colleghi, nuovi o ritrovati, la cui musica ha indirettamente contribuito alla sorprendente intensità emotiva dei sette brani qui presenti. Infatti, nel 2016 Van Hoen – conosciuto anche nelle vesti di Locust, progetto avviato negli anni Novanta dopo la subitanea dipartita dai Seefeel, che aveva co-fondato – ha fatto un tour della West Coast assieme a Philip Jeck, Simon Scott, Lee Bannon, Kara-Lis Coverdale, Marcus Fischer. Oltretutto cita ulteriori influenze identificabili nella musica di altri artisti di casa Touch: Mike Harding (con cui condivide il progetto Drøne), Claire M. Singer, Jana Winderen e, ovviamente, Chris Watson. Inutile, durante l’ascolto, andare alla ricerca di questa o quell’altra corrispondenza: è bene ricordare che di legami invisibili, appunto, si tratta. Stiamo inoltre parlando di un ascolto totalizzante, di quelli che non lasciano spazio alla riflessione; può sembrare ambient, ma va da sé che non lo è.
Già con le stratificazioni sostenute e tese dell’iniziale “Weather” e della successiva “Dark Night Sky Paradox” si dà l’immagine più o meno coerente dell’intero album: drone spettrali, evanescenti, ma allo stesso tempo ricchi di corpo e grana, che Van Hoen erige principalmente grazie al suo banco di moduli (accanto a software e plugin, Fender Rhodes, chitarre Jaguar, organo Farfisa e suoni trovati / field recording), tanto da poter accostare questa musica, in buona parte almeno, a quella di un Brett Naucke, tanto per rimanere nel mondo dei sintetizzatori modulari facendo un nome apparso recentemente su queste pagine. Le basse frequenze intermittenti e i carillon al ralenti di “Opposite Day”, la terza traccia, virano verso toni interlocutori, poi meditativi nella successiva “The Yes/No Game”, tra inganno dei sensi ed emozioni a fior di pelle. Le stesse che irradiano la malinconia nostalgica di “Aether” e le sue note di piano, almeno questa volta ben riconoscibili, lente e reiterate. E cosa potrebbe essere un brano intitolato “Flight of Fancy”, se non, appunto, un volo della fantasia che nella fattispecie conduce verso lande oscure e lievemente minacciose?
Poco importa che il titolo Invisible Threads prefiguri l’idea di un disco ottimista: poste in chiusura di un lavoro a suo modo difficile (ma che cresce nel tempo), le increspature oniriche di “Instable” azzerano ogni certezza già precaria. E ci ricordano di aver ascoltato o, meglio, vissuto un album che invece tratta di mutabilità e di metastabilità. Come assistere ad un cielo sereno che ad un tratto si annuvola; oppure camminare sulla superficie insicura di un lago ghiacciato, o ancora osservare inermi la bocca di un vulcano sempre attivo.