Mark Hollis. A Life (1955 – 2019)
Should have said so much?
Makes it harder
The more you love
(da “Watershed”)
Pulsa la barra di Word, pulsa e non smette di farlo, come il mio cuore a volte dispettoso (chi mi conosce, sa di cosa parlo) in questo lunedì di fine febbraio. Mi accingevo a stendermi sul divano e a lasciare svanire i pensieri dentro un film quando , sfruculiando su Facebook, ecco il proverbiale lampo a ciel sereno. È morto Mark Hollis. Un‘ora abbondante da quando l’ho letto e non riesco a staccarmi dal pensiero. Ho pianto come avessi perso una persona cara, ho letto di altri che hanno pianto appena saputo. Il freddo che è salito dentro le ossa quando la notizia ha squarciato il tepore di una serata qualsiasi in questa parte di universo non accenna a passare. Ora ho messo in loop il suo disco solista, e basta. Bisognerebbe tacere per secoli e ascoltare quello, basterebbe, per capire. Per capire cose che non si possono dire, ma solo pensare. Cose che accomunano e distanziano, nell’ineffabile mistero che è essere vivi, e poi, puf, l’attimo dopo, morti. Sono stato educato da un padre che ha avuto la tentazione e il narcisismo di credere che Dio in persona se la fosse presa con lui, quindi sono cresciuto nel solco di un ateismo totale e devoto, quasi rabbioso. Da bambino ricordo perfettamente che, realizzato – avrò avuto 10 anni, forse meno – che ad un certo punto si moriva e buonanotte ai suonatori, venivo preso da un’ansia invincibile, chiamavo mia madre e solo con le sue rassicurazioni prendevo sonno. Ecco. La voce di Mark Hollis rassicura; spezza, accarezza e rassicura: non temere, io lo conosco il tuo dolore, lo capisco, lo riconosco, amico mio. La voce di Mark Hollis è il nostro modo di pregare. Lei lo sa che stare sottovoce è molto più difficile che urlare a squarciagola; ci vogliono coraggio, pazienza, arte, il talento dei folli che resteranno unici e soli, per stare così vicino al primo, all’ultimo silenzio. “Mi alzo e vado al pianoforte. Tenterò un pugno di note, per blandire la morte”: me lo immagino così, il musicista nato a Londra il 4 gennaio del 1955, in un giorno di didascalica pioggia inglese, in uno di quei pomeriggi che allagano l’anima, a portare sulle spalle tutti quei secoli, a sentire quella indicibile tristezza che tanti di noi hanno avvertito, qualche volta, chi riuscendo a dimenticarsela, chi portandosela appresso come una benedizione, o una condanna. Del resto è una musica che sa di un passato intimo e remotissimo, che ha un’aura sacrale, un velo lievissimo e infrangibile, quella del suo unico disco solista, pubblicato nel 1998. È il peso della grazia ad animare quelle otto canzoni, requiem, ombre, romanzi in miniatura suonati con un tocco che non ha perso un solo grammo del miracolo che porta. Una meraviglia intima e solenne, nitida, scabra, su cui la voce di Hollis si distende come acqua: imprendibile, naturale, antica. Ma c’è anche polvere, ci sono ombre di presenze, orme di fuga, un respiro così intento da essere quasi insostenibile. La cenere della storia, l’amore, la memoria. Bisognerebbe smettere di mangiare, smettere di fare chiasso, smettere di perdere tempo in cose inutili, smettere di affannarsi. Affratellarsi, invece, ed ascoltare questo disco (o qualsiasi altra cosa leghi ognuno di noi a questo gigante della musica contemporanea, ne abbiamo parlato diffusamente qui) come se dal farlo o meno dipendessero i destini del mondo. Nonostante tutto cospiri a farci credere il contrario, c’è ancora un modo di fare le cose con un amore differente, di serbare lo stupore, l’incanto e il disincanto di essere qui, adesso, perché poi non ci saremo più, e ogni storia è storia di una perdita. Non serve fare altro che ascoltare, aprendo tutti i canali, occhi ed orecchie verso dentro. La scomparsa di Mark Hollis è la scomparsa di un pezzo di noi, e pazienza se questa frase è retorica allo stato puro, ma abbiamo pur bisogno di retorica a volte per andare avanti. Il racconto di ognuno di noi si nutre di mitologie privatissime, necessarie a non consegnarsi ad una malinconia definitiva, filosofica. La barra di Word continua a pulsare, il freddo oramai ha preso dimora nelle ossa, e penso che mi accompagnerà per qualche tempo ancora. Io lo sapevo, me lo sentivo che non sarebbero arrivati altri dischi a seguire quell’unico e inevitabilmente unico capolavoro, perché no, non era possibile dire null’altro, dopo quel capolavoro. E nemmeno adesso.
Senti la mia pelle, Signore, senti la mia fortuna rotolare giù, non resta altra vita, non resta altra vita per splendere (da “Inside Looking Out”, traduzione mia)