MARISSA NADLER, The Path Of The Clouds
È il nono album, The Path Of The Clouds, per Marissa Nadler, senza contare il precedente Droneflower firmato assieme a Stephen Brodsky (Cave In, Mutoid Man, Converge). Bella Union e Sacred Bones pongono il loro marchio sull’ennesima ripartenza della songwriter statunitense, che dal folk gotico degli albori ha via via sperimentato negli anni aperture lievemente ritmiche, melodie più solari e incontri vari (Randall Dunn alla produzione filo-doom dell’ottima accoppiata formata da July e Strangers, Angel Olsen e Sharon Van Etten a fare capolino in For My Crimes), senza però mai rinunciare veramente alla natura spettrale e nebbiosa della propria ispirazione. Il suo è ormai un marchio di fabbrica, che la rende riconoscibile e costante a livello qualitativo nel pianificare costruzioni tradizionali ma fuori dal tempo, pervase da atmosfere dreamy.
Cosa rende nuovo, dunque, questo The Path Of The Clouds? Nadler si è lasciata ispirare dal programma televisivo di criminologia Unsolved Mysteries. Così, se in passato i testi vagavano tra autobiografia e storie di personaggi in prevalenza femminili, qui la padrona di casa riscrive a proprio modo il concetto di murder ballad caro anche a Nick Cave, plasmando storie e dialoghi tra cronaca e fiction per riflessioni di senso universale. “Bessie, Did You Make It?”, scelta come primo singolo, ribalta gli stereotipi raccontando con stordente delicatezza l’omicidio di un uomo per mano di una donna costretta a sopravvivere. Le nuvole della title-track, a dispetto della loro apparenza immaginifica, sono quelle fuori dall’oblo del Boing 727 dirottato dal criminale D.B. Cooper negli anni ‘70. Mentre, veleggiando tra shoegaze e noir country, in “Well Sometimes You Just Can’t Say” la sorpresa è che negli anni ‘60 fu possibile persino un’evasione da Alcatraz e in “From Vapor To Stardust” si omaggia l’attore Robert Stack, che dal 1987 al 2002 condusse per l’appunto con successo la prima edizione di Unsolved Mysteries.
Le relazioni sono un autentico campo di guerra nell’alt-pop rétro di “Couldn’t Have Done The Killing”, dalla cinematografica coda di chitarra elettrica: Paint me as your villain / If you need a brand new start. Ci sono le fluttuazioni riverberanti di “If I Could Breathe Underwater” (e della correlata “Turned Into Air”), c’è il pianoforte che rispetta l’imprinting malinconico di “Elegy”, ci sono le corde in onirica fuga prog in “And I Dream Of Running”. A dispetto dei temi trattati, non vi sono comunque sia particolari scossoni nella successione delle undici ballad in scaletta, tutte molto curate e rifinite, intimiste, classiche se non addirittura già classicizzate, a volte fin troppo in controllo. Un registro che probabilmente fa accapponare ancora meglio la pelle, non si sa in fondo se per l’emozione, per la paura o per questo vento gelido di Ognissanti.