Marcus Schmickler e il caso Schreber
Nato a Colonia nel 1968, Marcus Schmickler ha percorso le strade della sperimentazione elettronica europea fin dal 1992, incrociando musicisti come Johannes Fritsch, John Tilbury, l’ensemble MIMEO (Music in Movement Electronic Orchestra), Keith Rowe e intraprendendo – a nome Pluramon – collaborazioni extra-accademiche con artisti del calibro di Jaki Liebezeit, Thomas Brinkmann, Felix Kubin, Kevin Drumm, Jan St.Werner e Julee Cruise (l’indimenticabile voce della colonna sonora di “Twin Peaks”). Diplomatosi in composizione e musica elettronica nel 1999 con Hans Ulrich Humpert, ha presentato le sue composizioni in tutto il mondo, invitato a festival come il CTM e Atonal di Berlino, la Biennale Musica Venezia 2023 e – recentemente – il festival belga Meakusma a Eupen, dove lo abbiamo incontrato. Parteciperà al RomaEuropa Festival il 10 novembre con la sua nuova composizione “Schreber Songs” insieme al Neue Vocalsolisten/Zafran Ensemble. La composizione si basa sul caso di Daniel Paul Schreber (Lipsia 1842-1911) per raccontare i cambiamenti delle dinamiche sociali moderne e l’avvento della psicoanalisi.
Ci racconti il tuo approccio al mondo dell’arte e nello specifico quando hai realizzato che il tuo interesse principale era la musica? Cosa ascoltava Marcus negli anni Ottanta?
Marcus Schmickler: Da adolescente attraversai fasi molto diverse a livello di interesse per la musica, alcune avevano a che vedere con l’apprendimento degli strumenti, altre semplicemente col frequentare persone in vari ambiti, ma per me tutto iniziò ad avere senso quando scoprii il potenziale dello studio di registrazione come vero e proprio strumento e che questa pratica sperimentale fosse un indirizzo con cui ottenere un titolo accademico. Dovevo avere 15 anni quando si presentò l’opportunità di frequentare una scuola con un focus intensivo sulla musica e dove incontrai persone che la pensavano allo stesso modo e che di questo si occupavano. Molti di loro stavano per iscriversi al Conservatorio e fu proprio lì che trovai dei modelli nei genitori di amici che si guadagnavano da vivere facendo gli artisti e la fiducia che questa fosse una possibilità anche per me.
Puoi parlarci del legame speciale che hai con Colonia, la tua città? Tra le altre cose sede dello Studio di Musica Elettronica diretto da Karlheinz Stockhausen.
Dopo che ebbi finito le scuole a Colonia, lasciai gli studi e mi trasferii a Londra. Ero davvero incuriosito dalla scena della musica elettronica britannica tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, dai party illegali, dalle radio pirata e dalle riviste come ID, era un movimento fresco e potente. Mentre ero lì, iniziarono a venirmi a trovare amici musicisti di Colonia che aiutai nella produzione dei loro primi dischi. Dopo un po’ mi resi conto che questo approccio più sperimentale, che cinque anni dopo si sarebbe formalizzato attorno ad A-Musik (un’etichetta “seminale”, fondata nel 1995 da Georg Odijk, oltre che negozio situato nel centro di Colonia, ndr), fosse più affine alla mia identità. Quindi, dopo un anno, tornai indietro e presto si verificò questo “slancio”, denominato “Colonia elettronica” dalla stampa specializzata.
Vivere in una città con una storia eccezionale per la musica d’avanguardia, dai WDR Studio con Stocky ai Can, è stato imprescindibile nella mia formazione. Ho studiato con Johannes Fritsch, anche lui figura-chiave in quel contesto, ma a farmi rimanere sono state anche cose più pratiche, come avere lo spazio giusto per lavorare e avere una famiglia. Nel frattempo ho abitato a Roma. Attualmente risiedo a Graz, in Austria.
Parlando ancora di Colonia, il concerto “Glockenbuch IV (Spectre Maria dei Carmini)” che hai tenuto a Venezia nel 2023 per La Biennale Musica, al quale eravamo presenti, è la composizione scaturita dalla tua scoperta negli archivi cittadini di uno speciale catalogo denominato il “Libro delle campane della città di Colonia”, su cui sono mappate, con l’esatta cartografia, le chiese e le relative campane, le più antiche risalenti al XV secolo, della città. Il testo contiene non solo tutte le caratteristiche fisiche ma anche quelle acustico/timbriche delle campane, un impegnativo lavoro di ricerca e ricostruzione sonora. I cinquanta minuti di quello straordinario concerto veneziano certo non ne esauriscono il materiale. Raccontaci come procederà il progetto…
Oh, questa è una storia più lunga… ma in breve, quando inizio un pezzo di questa portata, procedo a lavorare prima sulle idee tecniche, sulle implementazioni del pezzo e in parallelo sui suoi elementi narrativi. Faccio un elenco di cose che mi piacerebbe sentire dal punto di vista della computer-music, cose come la re-sintesi delle registrazioni delle campane, le simulazioni dei comportamenti spettrali che apparentemente risultano dal movimento delle campane e su come possano essere plausibilmente aumentati. Faccio anche delle ricerche sulla storia di queste antiche chiese e sull’arena acustica durante il Rinascimento, come e dove furono concepite. Inizio a dialogare con diversi esperti per aspetti tecnologici e in questo caso anche con storici dell’architettura.
La musica elettronica, l’idea di “non-musicista”, le nuove tecnologie hanno allargato enormemente sia il bacino d’utenza che il concetto di performer. Tu ti sei decisamente allontanato dall’elettronica “ambient”, IDM ed affini. Dal tuo punto di vista come interpreti questa enorme diffusione della musica elettronica?
Anche se ho i miei dubbi sulla piena riuscita del concetto di democratizzazione e di “non-musicalità professionale”, sono davvero un fan di certi tipi di dilettantismo stravagante che puoi trovare in registrazioni di alcuni ottimi artisti. Ciò che trovo più pericoloso di questa tendenza è la triviale banalizzazione del significato stesso di musica anche nel giro dell’accademia elettroacustica contemporanea. Tuttavia, ascoltando alcune opere delle giovani generazioni di musicisti, credo fermamente ci sia certezza di rinnovamento.
A me sembra che anche il pubblico dei festival di qualità, a cui abbiamo accennato prima, non riesca a individuare le differenze nelle proposte musicale/artistiche: sarebbe parziale e riduttivo generalizzare ma ad esempio un importante festival berlinese ha chiuso la scorsa edizione con due concerti straordinariamente, palesemente pessimi… ma la risposta del 90% del pubblico è stata comunque positiva! Hai notato anche tu questa prevalente acriticità generalizzata e che soprattutto negli ultimi anni il “contenitore” è diventato più importante del “contenuto”?
Forse! Però non sono un osservatore professionista di ciò che accade altrove. Penso che ciò che descrivi potrebbe avere a che fare con il ruolo del curatore, il quale in alcuni casi crea di proposito un’ammaliante aura della “sua” idea di rassegna o Festival che sia. Il pubblico è incolpevole perché non è generalmente composto da esperti, ma se la grande arte o la musica più stimolante vengono presentate nel modo giusto, allora l’audience seguirà. È anche vero però che in una città come Berlino ci sono forti pressioni per soddisfare criteri extra-musicali rispetto ad altri contesti dove certi dibattiti politici non sono così espliciti.
Torniamo a parlare di musica: per questa intervista mi sto anche riascoltando Pluramon, nello specifico i cd di Render Bandits e Dreams Top Rock che ho da più di vent’anni e che suonano dannatamente bene! Intuisco che parlarne oggi possa annoiarti, ma considera che la maggior parte dei tuoi estimatori, me compreso, hanno avuto modo di conoscerti giusto attraverso quei dischi. Che ricordi hai di quell’esperienza e sei rimasto in contatto con qualcuno dei musicisti con cui collaboravi in quel periodo? Che tipo era Julee Cruise?
Grazie, sono felice che ti piacciano! Sono più o meno in contatto con chi è ancora in giro, sono stati sicuramente dei bei momenti e lo dico proprio ora ricordando Achim Szepanski (scrittore e musicista di Karlsruhe sodale di Marcus, fondatore di Mille Plateaux/Force Inc. scomparso il 22 settembre 2024, ndr). Comunque oggi sono grandi tempi musicalmente, forse anche migliori. Certo mi piaceva soprattutto la parte ingegneristica di quei dischi, cercare di ottenere un suono… perfetto. La parte più difficile erano i tour dal vivo e i concerti, specialmente quando c’era Julee. Una delle cose impossibili o quasi che provai a fare fu rendere la voce di Julee Cruise, come dire, “molto potente”, purtroppo però a quei tempi non riuscì a trovare lo staff giusto per realizzarlo… ma sì, è vero che quei dischi funzionano ancora bene.
Sei atteso il 10 novembre all’Auditorium Morricone, all’interno del cartellone del RomaEuropa Festival, con “Schreber Songs”, il progetto che hai realizzato in collaborazione con Neue Vocalsolisten/Zafraan Ensemble, puoi anticiparne per i nostri lettori il soggetto?
È la prima volta che affronto la composizione di un pezzo per il teatro-musicale. Tratta della vera storia di Daniel Paul Schreber, un giudice di successo che verso la fine del XIX secolo si ammalò di mente. Daniel era figlio di un noto pediatra tedesco e a 51 anni cominciò a “sentire le voci”, immaginandosi altresì che tutti i suoi pensieri fossero controllati e custoditi da due Dei. Nel 1903 descrisse i propri sintomi nel suo “Memorie di un malato di mente” (edizioni Adelphi, a cura di R. Calasso, ndr) e sia Carl Gustav Jung che Sigmund Freud, studiandolo, resero famoso il suo caso come il primo esempio scientificamente acclarato di sindrome paranoica. Ho cercato in questa composizione d’indagare e rendere accessibile il mondo interiore di Schreber, perché credo che la sua situazione mentale abbia moltissimo a che fare con il mondo e la realtà in cui tutti noi viviamo oggi!
Finale scultoreo, grazie Marcus e appuntamento al RomaEuropa Festival per il live del 10 novembre.