Marcella Riccardi / BeMyDelay: suonare con lentezza
La musica è forse una delle forme più efficaci di auto-terapia. Non è retorica, ce lo conferma Marcella Riccardi, ma vi confesso che da ragazzo è successo anche a me di averne bisogno per superare un periodo difficile. BeMyDelay è un nome che sta a significare proprio un modo di agire e di pensare, sublimato dalla naturale lentezza dello scorrere del tempo, e il percorso della chitarrista bolognese dimostra che registrare pochi dischi, farli alla propria maniera e provarli tanto fra quattro mura prima di farli ascoltare al pubblico, resta la strategia migliore da attuare. Bloom Into Night mi ha colpito per sincerità espressiva ed estetica, non succede spesso che ciò accada, perciò non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di far parlare Marcella e di farle ricordare le sue esperienze di musicista, anche con Starfuckers e Massimo Volume, di organizzatrice di concerti ed appassionata di dischi.
Cercate di incrociarla dal vivo se potete.
È passato un po’ di tempo da Hazy Lights, era il 2013. Con questo nuovo Bloom Into Night secondo me hai fatto un passo in avanti verso un songwriting più maturo, le canzoni lo dimostrano chiaramente. Cos’è cambiato in questi anni?
Marcella Riccardi: Hazy Lights è il risultato di una ricerca interiore che mi ha portato a valutare positivamente la mia vulnerabilità prima di tutto, e poi la vulnerabilità in generale. Un disco fragile e devozionale, scaturito da un momento di estasi, di scoperta. Non avevo più bisogno di usare molteplici effetti o loop, potevo ascoltare i silenzi ed i respiri, lo slancio vitale era tutto. Il disco fu composto in poco più di un mese e i brani furono registrati subito dopo, e con pochissimi mezzi: due microfoni e un Tascam 388.
Con Bloom Into Night ho cercato di portare avanti questa riscoperta semplicità in trio. Il processo era oscuro all’inizio, i pezzi li ho scritti in un momento di sofferenza, avevo bisogno di un porto sicuro e mi sono affidata all’accordatura standard e ai buoni vecchi accordi tradizionali. Volevo riscoprire la bellezza di un Do maggiore, di un La minore, in un mondo musicale sempre più sofisticato. Queste canzoni sono state suonate centinaia di volte prima di essere registrate. Ho lasciato carta bianca a J. H. Guraj e a Vittoria Burattini, non volevo limitarli con una mia idea di arrangiamento, e grazie a questo lavoro di lenta e spontanea evoluzione è nato il disco.
Ricordo una tua esibizione dell’estate del 2011 al Vicolo Bolognetti dopo i Father Murphy. Eri sul palco assieme a un batterista, se non ricordo male, ad ascoltarti non eravamo poi in molti e faceva un caldo bestia: era appena uscito ToTheOtherSideΔ. Come nasce il progetto BeMyDelay? Peraltro è un nome che è tutto un programma, no?
Ah si, ero con Gelo! (Buzz Aldrin/Melampus). Già, mi devo ricordare di non suonare più a Bologna d’estate, si suda troppo!
Il progetto BeMyDelay prende forma nel 2009. Ricordo che quell’anno vidi Lichens / Robert Lowe al Bronson, lui usava solo una loop-station e una chitarra con delay, il set fu splendido. Da lì cominciai a sperimentare con le loop-station anche io e ad acquisire coraggio per il mio progetto in solo. Il nome lo scelsi quasi per scherzo, una sera di bevute al mitico barino di fianco all’Osteria del Sole, con la signora che faceva i “gin-tini”; di BeMyDelay mi piaceva il suono e il nome rispecchiava la mia passione per i delay. Senza saperlo mi ritrovavo in una piccola scena di one (wo)man bands che in quell’epoca nacquero. Partecipai anche a un festival, “Rospi In Libertà”, dedicato solo a progetti solisti, e lì conobbi Rella The Woodcutter / Everest Magma, Marco / Above The Tree, Johnny Mox e Lili Refrain
E mi racconti delle esperienze coi Franklin Delano e i Blake/e/e/e? Cosa ti hanno lasciato?
I Franklin Delano sono stati gli USA, la libertà di sperimentare con la chitarra elettrica in scenari sonori vasti e desolati e l’esperienza del cantato in duo, in simbiosi. È così che ho iniziato ad avere più confidenza nelle mie doti canore. Siamo partiti con questo immaginario delle grandi praterie americane, di spazio per respirare, cominciando a suonare alle feste di paese e nei locali del modenese per arrivare poi ad avere un’etichetta di Chicago, la File13, che credeva in noi, e a fare vari tour negli States, di cui uno di 55 date in 60 giorni, un’esperienza indimenticabile.
Con i Blake/e/e/e cercavamo una via d’uscita dall’immaginario dei Franklin, volevamo fare qualcosa che esprimesse i nostri ascolti dell’epoca: tanta musica mediorientale e tanto post-punk.
Con loro ho anche raccolto il coraggio di scrivere pezzi miei e di cantarli dal vivo. Non è stato facile, a volte dopo il concerto correvo nel furgone a nascondermi. In generale questi due progetti mi hanno lasciato una grande ricchezza, la possibilità di conoscere posti e situazioni che mi hanno fatto crescere e l’aver condiviso con tantissime persone passioni ed esperienze.
Quanto è stato formativo collaborare con un artista speciale come Tom Carter, essere parte del live dei G3 di Rhys Chatham e le frequentazioni del giro bolognese che faceva capo agli Starfuckers e ai Massimo Volume? Cosa pensi di aver imparato e di aver dato?
Quando suonai con Rhys ancora non conoscevo bene il minimalismo e l’avanguardia statunitensi. Forse è stato un bene, mi sono sentita più libera e meno in soggezione. Rhys è un uomo gentile, intenso e giocherellone. La sua presenza calma, senza stress, era già un insegnamento. Ricordo che mi disse: Marcella you are the first woman in Europe to play my G3, first one in the States was Kim Gordon.
Tom Carter è un essere umano speciale, lo conobbi dopo che organizzai un concerto dei Charalambides a Bologna, qualche giorno prima che si sentisse male a Berlino e fosse ricoverato per mesi, questo ci ha portato a diventare ottimi amici. Ha condiviso con me la sua enorme conoscenza musicale, la sua curiosità, l’intelletto acuto e la grande umanità.
Starfuckers e Massimo Volume… non saprei da dove cominciare, sono per me grandi amici prima che artisti. Mi hanno fatto sentire una musicista prima che io mi sentissi tale, mi hanno dato coraggio e determinazione. Manuel degli Starfuckers mi fece suonare nel disco “Infrantumi” nel 1997 rendendo la cosa il più agevole possibile, all’epoca ero molto insicura. Nei concerti dei Massimo Volume mi sono fatta le ossa, nelle mie prime date con loro entravo per prima sul palco, con una parte di slide. Ricordo il panico a Palestrina, con tantissimo pubblico, fu terribile e bellissimo. Tra l’altro quella sera conobbi i Morphine e il giorno dopo Mark Sandman sarebbe morto sul palco, che cosa tristissima.
Cosa ho dato io è difficile da dire, dovresti chiederlo a loro. Amore, accoglienza e rispetto. spero.
Se non erro tu non sei bolognese, ma vivi in quella città da tempo ormai. Posso immaginare perché arrivasti lì anni fa, anche io feci una scelta simile… come e quanto la vedi cambiata rispetto agli anni Novanta?
No, non sono bolognese, sono cresciuta a Busseto, al confine tra Parma, Piacenza e Cremona. Quando arrivai io, a fine 1996, tutti già mi dicevano: “Ah, Bologna non è più quella di una volta”. Avevano appena sgomberato l’Isola nel Kantiere e le case occupate al Pratello stavano per scomparire. C’erano però il Livello 57 e il Link, ecco, per me gli anni Novanta e i primi Duemila a Bologna sono soprattutto il Link. Ora la mia impressione è che non ci siano più realtà di questo tipo. I progetti si muovono più in piccolo, nascono e muoiono velocemente, ma non per questo sono meno validi, forse è solo un segno dei tempi. Uno dei punti cardine per la musica a Bologna ora è il Freakout Club. Ci sono sempre anche Xing, Angelica, il Centro di Ricerca Musicale San Leonardo… nel bene e nel male: il bene è, per esempio, che posso andare ad un concerto di Charlemagne Palestine e magari farci anche due chiacchiere dopo, il male è che queste realtà sono così solidificate che è difficile inserirsi per proporre cose nuove.
Una cosa che mi intristisce particolarmente ora è la Bologna per turisti. Per ogni negozio o locale che chiude in centro apre un posto “fake” per mangiare prosciutti e tortellini, a ribadire che l’Italia è buona solo per il cibo.
Cosa ascoltavi da adolescente e cosa ascolti ora?
Da adolescente la svolta è stata Nick Cave: lo vidi nel 1989 e rimasi fulminata. Ero una ragazza di provincia e lui mi aprì un mondo sconosciuto. Ho amato molto tutta la scena gotica, da The Cure a Sister Of Mercy, Siouxsie And The Banshees, Joy Division. C’era una radio nel bresciano a fine anni Ottanta, credo si chiamasse Blackout, ascoltavo Diamanda Galás e Tuxedomoon la notte tardi. E c’erano anche un paio di locali “dark” dove si poteva andare a muovere ginocchia e spallette al ritmo di “Temple Of Love”.
Poi per me arrivò il grunge, poi i Talk Talk degli anni Novanta e infine le grandi cantanti jazz: Nina Simone, Sarah Vaughan, Billie Holiday. Da lì in poi i miei ascolti sono sempre stati eclettici.
Ora ascolto molta musica antica, sia profana che sacra, John Coltrane e Alice Coltrane non mancano mai, così come Terry Riley. Amo molto le grandi artiste dimenticate, da Judee Sill a Karen Dalton, Bridget St. John, Linda Perhacs. Due anni fa vidi Patty Waters, l’anno scorso ho visto Mary Margaret O’Hara. E poi potrei andare avanti: Popol Vuh, Tangerine Dream, The Necks, Giacinto Scelsi, ma anche compositori contemporanei come John Adams, David Lang, Phil Kline…
Domanda tranchant: pregi e difetti delle varie micro-scene underground italiane.
I pregi sono tanti: ci unisce la volontà di rendere il mondo in qualche modo più bello ed accogliente. Ci uniscono la voglia e il coraggio di spendere tempo e risorse per fare qualcosa di sentito, sincero e condiviso senza pensare al ritorno economico. La moneta di scambio in queste scene è ben più preziosa del soldo. Il problema è l’essere forse troppo selettivi, chiudersi in un genere, in un giro di amici o in un solo tipo di musica e diventare impermeabili ad altre influenze. L’altro problema è proprio la mancanza di soldi!
Hai anche organizzato un bel po’ di concerti e tour di artisti stranieri in Italia. Quelli che ti hanno lasciato un ricordo migliore quali sono stati?
Sì, è una cosa che ho fatto molto volentieri e che ancora faccio, anche se in forma più limitata. Ogni progetto/musicista porta con sé un mondo e da questi incontri se ne esce sempre arricchiti. I concerti che mi hanno resa particolarmente felice sono stati tantissimi, tra gli altri: Charalambides, Circuit Des Yeux, Eric Chenaux, i Jooklo Duo con Bill Nace, Z’EV, Mike Cooper, Andrea Belfi, Chuck Johnson, Marisa Anderson, Eternal Zio, Rella The Woodcutter, Josef van Wissem e Maurizio Abate, Father Murphy, Egle Sommacal.
Porterai in giro Bloom Into Night? e con quale formazione?
Certo, lo porterò in giro, non ho mai smesso di suonare dal vivo anche in questi anni in cui non ho avuto uscite per etichette. Farò una prima presentazione del disco a Bologna a Modo Infoshop in duo con J. H. Guraj il 7 aprile. Il grosso delle date lo farò in duo o in solo, in trio faremo forse un giro estivo, ma è ancora tutto da vedere.