MARC RIBOT’S CERAMIC DOG, 25/01/2024

foto di M.R. Bignamini

Losanna, Jumeaux Jazz Club.

Per ogni nuovo antro destinato alla musica che viene al mondo festeggiare è d’uopo, specie se a soli quattordici giorni dall’apertura ti piove in testa un meteorite sonorizzato da Marc Ribot e dal suo esplosivo trio. Dopo un paio di anni di attesa e qualche inghippo burocratico-gestionale di troppo che ci ha ricordato robe di casa nostra, il Jumeaux Jazz Club, insediato nel vivace quartiere del Flon in uno dei due edifici gemelli (da cui il nome) recuperati dallo stato di abbandono in cui versavano, ha tagliato il nastro riproponendosi di mettere in atto una programmazione meno ingessata e tradizionalista rispetto alla concorrenza locale, anche con puntate nella world music di qualità. Saranno il tempo e la risposta del pubblico a dirci se gli ottimi propositi d’avvio troveranno conferma. Per l’istante gli organizzatori si fregano le mani per l’affollamento sinora registrato, compreso il sold out per la performance del chitarrista newyorchese, salutato da una folla attenta e insieme giubilante.

Un clima di positiva tensione partecipata che in tutta evidenza ha inciso sull’umore dell’ormai quasi settantenne Marc, al punto da farlo ritornare sul palco per bis piuttosto significativi: una poesia di Allen Ginsberg avvolta in un fraseggiare quasi pacato (“Sometime I’ll lay down my wrath, / as I lay my body down / between the ache of breath and breath, / golden slumber in the bone”) e una cumbia stravolta e travolgentemente punkizzata (“Crumbia”). Insomma, un Ribot quasi al limite del sorriso, in ogni caso mancante del cipiglio con il quale di solito affronta la scena, dietro cui in realtà sa celare molto bene un animo da scavezzacollo delle medie (inferiori). Ceramic Dog è, come lo si sarebbe definito una volta, un power trio, adatto a pestare duro senza per questo dimenticare le divagazioni, divise tra momenti surreali e altri di pura follia. Il legame sonoro del leader con il bassista Shahzad Ismaily (anche a una mini batteria, a un minimoog che si tiene sulle ginocchia e a una chitarra) nonché con il drumming dell’ottimo Ches Smith – a proposito, è appena uscito il suo visionario e multiforme Laugh Ash per la Pyroclastic – è connotato da tratti viscerali e va molto oltre l’esuberanza a sfondo punk applicata a materiali diversificati, dal blues al garage, dallo stoner all’hard rock, dalla improv alla psichedelia.

foto di M.R. Bignamini

La gran parte delle tracce proposte proveniva dall’ultimo Connection, un gran bel disco, sinora probabilmente il migliore dei Ceramic Dog, non entrato, chissà mai perché, nelle grazie degli addetti ai lavori e delle loro playlist 2023. In apertura del live spazio così alla title-track in odore di Velvet Underground ma dall’ampia intro rumorista, poi, dopo alcuni riff e cambi di scena malandrini, al flusso di coscienza anticapitalista di “Subsidiary” affogato in un heavy-noise selvatico, anticipo della “Ecstacy” vagamente rallentata e latin nel ritmo d’avvio, ma infine affondata da fendenti hendrixiani. L’intermezzo strumentale di “No Name”, proposto in versione accelerata e isterica rispetto all’album, spiana la via alla ripresa irsuta di “Lies My Body Told Me” (tratta da Your Turn e incredibilmente suonata alla sfilata Gucci uomo autunno/inverno 2023 a Milano) e subito dopo alla cavalcata-manifesto di “Soldiers In The Army Of Love”, brano a cui è impossibile resistere.

Rispetto al Connection da studio si perdono certo le sfumature, la mancanza degli ospiti incide sulla varietà dei timbri e dei colori, però il rasposo set del trio rimane tra le più efficaci dimostrazioni di che cosa significhi interpretare in maniera intelligente lo spirito odierno del rock o di quel che ne è rimasto. Ribot e la sua chitarra assertiva e insieme distorta, radicata nella cultura alternativa statunitense, sanno come muoversi tra le infide paludi dell’ovvietà e giungere al traguardo sporchi sì ma sani e salvi.