Manuele Giannini: “Con il tempo ho imparato anche a non avere opinioni”
Manuele Giannini: Starfuckers (poi Sinistri, direi che non serve aggiungere altro) e Weight & Treble con Massimo Carozzi, freschi di uscita su Love Boat Records con Riddims 2010-2014. Ci siamo incrociati a Bologna un paio d’ore prima del concerto dei Matmos, a due passi dal Megastore di Sonic Belligeranza dove avrebbero presentato il loro disco. Ne è nata una conversazione.
Parto da due flash personali: 1998 (ricordo bene?), il concerto a Correggio di spalla ai Sonic Youth. Ricordo gente convinta che steste facendo il soundcheck che chiedeva: “Oh, ma quando iniziano? 2002, Oakland: all’Amoeba (forse il più bel negozio del mondo) trovo il vostro cd di Infrantumi a 99 cents. Cosa mi racconti di quegli anni?
Manuel Giannini: Sì, fu nel 1998, ricevemmo un fax direttamente dai Sonic Youth che ci invitarono ad aprire il loro concerto. Conoscevano i nostri dischi e ci apprezzavano molto, avevamo inciso una cover di “Death Valley 69” per la Electric Eye (1991), probabilmente ci conobbero per quel motivo. So che Thurston passò al negozio Underground Records a Bologna nei primi anni Novanta e comprò il nostro primo disco.
Al concerto furono gentilissimi, stettero seduti sul palco ad ascoltarci per tutto il tempo e, durante il loro show, prima di suonare “Death Valley 69”, Moore disse “adesso suoniamo un brano degli Starfuckers”. Successivamente abbiamo aperto anche un altro loro concerto a Roma, nel 2002. E sì, durante il sound-check il fonico dalla console ci disse qualcosa tipo “Bene, per i singoli suoni degli strumenti, ora suonate un brano”, “Ma noi stiamo già suonando un brano!”, risposi. Fra la comunità dei tecnici divenne una specie di quello che ora sarebbe definito un meme. Sì, penso che anche durante il concerto vero e proprio buona parte del pubblico ritenesse che stessimo ancora facendo il soundcheck.
I tempi, per fortuna, sono molto cambiati, oggi, anche chi non è affezionato alle musiche più radicali ne ha comunque contezza. Ancora a metà degli anni Novanta proporre un disco come Sinistri per un gruppo dalle radici rock era molto difficile, sotto tutti i punti di vista, quasi sempre durante i concerti o le registrazioni, pubblico, altri musicisti e tecnici ci guardavano come pazzi o alieni, riuscimmo a fare pochissimi concerti di promozione, molti di più invece con il disco successivo (Infrantumi) assai più radicale, ma appunto i tempi stavano cambiando.
L’ultima volta che ho visto Sinistri eravate al Netmage, un tot di anni fa oramai: siete attivi? Che state combinando? E la differenza tra Starfuckers e Sinistri è di nome o anche di fatto?
L’ultimo concerto lo abbiamo fatto nell’ottobre del 2019 al Krakatoa Festival a Bologna, con la pandemia ci siamo fermati e ancora siamo in pausa.
Abbiamo lavorato alle registrazioni di un live di sei ore fatto al Link a Bologna nel 1999, sarebbe dovuto uscire un cd a suo tempo, ma, per un problema tecnico, le registrazioni furono pesantemente danneggiate, durante il lockdown abbiamo recuperato il materiale recuperabile e pubblicato in vinile The Eternal Soundcheck (Spittle Records, 2020), di cui sono molto contento, perché testimonia una fase del nostro percorso musicale di cui non esistevano pubblicazioni. Sinistri all’inizio erano gli Starfuckers, senza cambiamenti, cambiammo il nome senza un motivo preciso, semplicemente ci andava di cambiarci il nome, perché abbiamo sempre fatto quello che ci andava, anche senza ragioni precise. Poi entrò a suonare con noi Dino Bramanti e dopo la sua tragica scomparsa ci pareva giusto tornare al vecchio nome, per cui sostanzialmente Sinistri semplicemente è legato alla presenza di Dino nel gruppo.
Come avete iniziato a decostruire e a creare questo vostro linguaggio così peculiare? Si è trattato di un incidente di percorso avvenuto per caso, di un errore, di un’illuminazione o che?
A partire dal 1991 cominciai a interessarmi compulsivamente alla musica contemporanea e a dedicarmi all’ascolto di tutto quello che potevo trovare, eravamo in tempi pre-internet e ascoltare e reperire le musiche di Cage, Stockhausen o Xenakis era piuttosto difficile. Sinistri è il frutto di quelle mie ricerche e intendeva coniugare le tecniche compositive sviluppate in quegli ambiti con l’approccio brutale e democratico tipico del punk. Quindi fu frutto della maturazione di ascolti, letture e lunghe riflessioni sulla musica. Ma il punto fondamentale del disco è la frase riportata nel retro copertina: “Tutti i suoni uditi durante la riproduzione di questo disco sono intrinseci alle composizioni”.
Infrantumi, che credo abbia definito il nostro stile più maturo, fu invece frutto di un’illuminazione. Ebbi l’intuizione del valore dirompente del silenzio, mi resi conto che porre l’attenzione al tempo che intercorre fra due suoni contigui più che al suono in sé avrebbe radicalmente cambiato il nostro approccio alla musica. Per cui abbiamo fatto una specie di reset, cancellato tutte le nostre certezze e imparato a suonare di nuovo.
Forse, ma non sono sicuro, l’idea mi venne semplicemente guardando una poesia qualsiasi sulla pagina di un libro, mi resi conto che il semplice andare a capo, il lasciare uno spazio bianco tra un verso e l’altro, conferiva alle parole un significato diverso, e che quello spazio bianco, a margine dei versi, assumeva per me un significato ulteriore, più potente della parola stessa.
Bologna: come ci sei capitato, come ci sei restato, com’è cambiata negli anni? La tua mappa ieri, oggi, domani. Musicisti, negozi di dischi, luoghi, locali…
Sono cresciuto in Lunigiana, mi sono spostato a Bologna nel 1985 per fare il DAMS. Contrariamente a quello che molti pensano, nella seconda metà degli anni Ottanta a Bologna c’erano pochi live club e pochi live show, c’erano invece ottimi negozi di dischi come il Disco D’Oro (che esiste ancora) e Nannucci (che non c’è più). Musicalmente Bologna è cambiata nel 1988 con l’Isola nel Kantiere, un centro sociale occupato in pieno centro, da lì in poi nacquero locali importantissimi per la diffusione della musica, il Link sopra tutti.
Gli anni Novanta furono fenomenali a Bologna, la proposta musicale era notevole, ma perché era eccezionale la proposta musicale internazionale, era appena avvenuta quella che per me è stata l’ultima rivoluzione musicale mondiale che Bologna, anche se non subitissimo, ebbe il pregio di saper intercettare. Tengo a precisare però che anche negli anni Novanta c’erano meno concerti, meno locali, meno etichette e meno musicisti di quanti ce ne siano ora; è diversa la qualità della proposta, ma perché appunto diversi sono i tempi.
Bologna non era attiva solo nella diffusione della musica, ma anche nella produzione, per farti un esempio nel 1994, a stretto giro, furono registrati: il nostro Sinistri, “SXM” dei Sangue Misto e Lungo I Bordi dei Massimo Volume, tre dischi, a mio parere, molto importanti per la scena musicale italiana.
Ci siamo incrociati prima del concerto di Matmos per Angelica: ti va di raccontare l’incidente che vi ha visto protagonisti?
Sì, premetto che non ho nessun rancore nei loro confronti. Partecipammo entrambi a una compilation “Iamaphotographer” (Plain Rec, 2001) dedicata a Michelangelo Antonioni, e lì probabilmente hanno ascoltato la nostra musica. Nel 2003 vennero a suonare a Bologna e ci invitarono a vedere il loro concerto. Rimanemmo un po’ insieme e ci riempirono di complimenti, dicendo che avevano ascoltato e apprezzato i nostri lavori. Era appena uscito il loro The Civil War, che ci regalarono. Quando tornai a casa ascoltai il cd e mi resi conto che due brani utilizzavano campioni della nostra musica, andai a cercare nei crediti, ma non c’era scritto nulla. Non nascondo che ci rimasi un po’ male, per noi, ai tempi, essere menzionati su un disco dei Matmos sarebbe stato importante. Probabilmente loro lo fecero in buona fede, e fu solo una dimenticanza, però…
Cinque dischi imprescindibili nel tuo percorso di ascoltatore e musicista, cinque chitarristi e cinque band della vita.
Scusa se sballo i numeri ma faccio fatica, mi rendo conto che è tutta roba vecchia e me ne dispiace, ma se mettessi altro mentirei, farò riferimento solo a quelli imprescindibili che, nel corso degli anni, hanno realmente cambiato il mio approccio alla musica.
Più che un elenco farei un discorso: il primo disco che, per contenuti musicali, mi sconvolse fu Remain In Light dei Talking Heads, poi il disco per me più importante di tutti, fu il primo degli Stooges, che mi convinse a formare una band. Metal Machine Music di Lou Reed: anche il rock può essere spinto fino al limite, Bitches Brew di Miles Davis e The Shape Of Jazz To Come di Ornette Coleman mi fecero capire che il jazz non era solo quella roba lì che avevo ascoltato sin ad allora sulle radio commerciali. Con Aus Den Sieben Tagen di Karlheinz Stockhausen e Music Of Changes di John Cage compresi che la musica non si fa solo con le regole della musica e con “I Got The Feelin’” di James Brown capì che tutto ha a che fare con il tempo, mentre con “Black Board Jungle” degli Upsetters imparai la potenza dell’uso dello studio di registrazione (anche tecnologicamente limitato) come strumento creativo in sé. Showcase dei Rhythm And
Sound/Tikiman, invece, mostra che si può reinventare in un altro contesto e in un altro tempo una musica codificata come il reggae e spingerla verso altri orizzonti.
Per i chitarristi: John McLaughlin quando suona con Davis (A Tribute To Jack Johnson su tutti), Tony Iommi e la pesantezza dei suoi riff, Keith Richards e le sue dita appiccicose, Jimmy Nolen e il suo senso del tempo, Ron Asheton la sua brutale semplicità. Mi rendo conto che sono tutti vecchi o morti, ma sono quelli che, a suo tempo, mi hanno influenzato, per non passare da passatista cito Mary Halvorson tra i contemporanei, bravissima.
Lonely Woman di Ornette Coleman, il bordone ritmico, gli strumenti che non si prendono, la linea melodica originalissima… il mio brano preferito di sempre, irraggiungibile! poi “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges, anche solo per quel Mi lasciato risuonare libero sulla chitarra a fare da “rumore” sugli altri accordi, pura avanguardia; e “4’33”” di John Cage, rivoluzione pura.
Cosa stai ascoltando ultimamente?
Questa è la domanda più difficile. Faccio fatica a risponderti, la diffusione della musica online ha provocato in me l’effetto contrario a quello che avrebbe dovuto sortire, invece di ascoltare più musica nuova, ne ascolto meno. A me piace ascoltare musica in maniera assoluta e non come sottofondo, mi piace ascoltare un vinile o un cd su un buon impianto stereo mentre faccio solo quello, l’ascolto online è troppo dispersivo, acusticamente riduttivo e musicalmente frustrante, finisce che ascolto qua e là le cose nuove ma non mi appassiono e non me le ricordo, dovrei comprare più dischi, ma alla fine, per una serie di ragioni, non lo faccio (ma invito a farlo).
Non che non ci sia musica buona in giro, ce n’è molta, ma forse quantitativamente troppa perché io riesca a starle dietro, alla fine vado spesso a vedere concerti e ascolto Battiti su Radio3 che propone cose sempre interessanti, ma quando ho tempo, mi rifugio più spesso in dischi che ho già in casa, tipo quelli del Miles Davis elettrico, che in altro.
Devo dire poi che, sempre più spesso, mi gratifica anche il semplice ascolto dei rumori ambientali, apprezzo passare qualche minuto concentrato ad ascoltare la grana acustica del paesaggio sonoro come se stessi ascoltando un brano.
Ti confesso che mi piacerebbe che venisse fuori qualcosa di eccezionale da musiche considerate triviali come trap e reggaeton (a me piacciono le innovazioni dal basso, come il punk, la techno o il reggae); comunque, se vuoi un nome, l’ultimo disco che ho ascoltato con attenzione è Spiralis Aurea di Stefano Pilia.
Il tuo primo ricordo musicale?
Ah, forse mia madre che cantava i brani di Sandie Shaw mentre sbrigava le faccende di casa… ma se vuoi un ricordo più pertinente direi il concerto dei Fall Out, Cheetah Chrome Motherfuckers e altri gruppi del Granducato Hardcore a La Spezia nel 1983, fu il mio primo impatto con la musica alternativa live.
L’underground: esiste, resiste, è spappolato, insiste e dovrebbe lasciar perdere? Che ne pensi?
Non sono sicuro di sapere esattamente cosa sia l’underground oggi, se essere underground significa sottrarsi radicalmente alle logiche del capitalismo ho l’impressione che siano pochi gli artisti che lo fanno, mi sembra che l’industria musicale sia unica e che sia difficile sfuggirle, e che spesso gli artisti underground possano essere definiti underground solo per i numeri che fanno. Penso anche che, a volte, ci siano, almeno in alcuni aspetti, contenuti musicali più innovativi nel mainstream che nell’underground, che spesso è molto conservatore o passatista. Ma non so è una domanda al di sopra della mia portata, non ho un’opinione, e con il tempo ho imparato anche a non avere opinioni.
Weight & Treble: da dove nasce l’infatuazione per i riddim? Come avete lavorato con Massimo? Avete cose nuove in cantiere?
Ho amato il reggae sin da ragazzino scoprendolo per via indiretta (e a volte mistificata) attraverso Clash e Police, ma ho approfondito la sua conoscenza relativamente tardi rispetto ad altre musiche. Come forse s’è capito, ho un approccio compulsivo con la musica, quando mi appassiono a un genere o uno stile musicale lo studio e lo analizzo ossessivamente, Weight And Treble nasce dall’ossessione per la musica giamaicana, che considero meravigliosa e magica.
Molti appassionati di musica non la conoscono veramente e non la amano, spesso lo ripeto, chi non ama il reggae e la sua storia, non ha titolo per parlare di musica.
Weight And Treble nasce con l’idea di riprodurre il suono dello Studio One sostituendo i musicisti con i synth ma utilizzando le macchine più per i loro limiti che per le loro possibilità, per cui ogni synth sostituisce un musicista (chitarra, basso, batteria e organo), e usa praticamente lo stesso suono e lo stesso approccio stilistico e tecnico, come appunto fosse un essere umano, per ogni brano. Nelle composizioni ho rispettato le regole base del reggae, filtrandole attraverso l’approccio berlinese alla dub-techno e utilizzando tecniche mutuate dalle esperienze compositive del serialismo.
Ho registrato i brani utilizzando un vecchio sequencer a quattro tracce e li ho filtrati secondo il tradizionale protocollo dub (analog delay, spring reverb, analog filter). Massimo ha aggiunto i field recording, qualche synth e ha mixato e processato i brani.
Per le parti vocali Suz, Sensational e Francesca Amati hanno autonomamente composto la linea melodica.
Al momento non abbiamo nulla in cantiere, né con Weight And Treble né con Starfuckers.