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MANES, Slow Motion Death Sequence

Slow Motion Death Sequence

Nomen omen, come dicevano i latini, perché Slow Motion Death Sequence descrive in modo perfetto il contenuto del nuovo album dei Manes, creatura unica per approccio sin dai tempi di quel Vilosophe che ha segnato un cambio di percorso per la band e non solo. Il disco non è, come sottolinea lo stesso Torstein in sede di intervista, un ritorno alle origini, perché i Manes non amano certo guardarsi indietro, ma è innegabile che ci sia un mood affine che ne fa il perfetto erede di una sensibilità e di un’impostazione consacrate da quell’album, uscito nel 2003 per la code666. Dicevamo del titolo e del suo legame con il contenuto, non tanto (non solo) perché fotografa in slow motion un decesso, quanto perché si riappropria di un modo di avvicinarsi al lutto sempre meno frequente nella società odierna, un assaporare certe emozioni e cullarsi in qualche maniera nel gusto dolce/amaro del dolore e della elaborazione dell’esperienza. I brani hanno in sé la leggerezza tipica dell’elettronica cara alla formazione, per via di un tocco mai cafone, eppure in profondità appaiono oscuri e dolenti, permeati di nostalgia e memorie passate, figli di un’invidiabile capacità di porsi in modo rispettoso ma mai troppo solenne o inamidato. Esempio perfetto di quanto appena detto è  “Scion”, primo singolo scelto come antipasto, uno dei momenti più riusciti ma non certo l’unico all’interno di un album che si impone per pathos e forza immaginifica. Certo, di metal comunemente inteso qui c’è davvero poco o nulla: siamo ormai saldamente sui binari di un’elettronica quasi pop, che evita esplosioni bombastiche e prove di forza, eppure proprio per questo si dimostra in grado di imprimersi e incidere a fondo le carni dell’ascoltatore. Slow Motion Death Sequence appare sentito e personale, per nulla algido o formale, bensì desideroso di essere indagato e farsi ammirare, non tanto per vanità, quanto per bisogno di condividere e lasciarsi partecipare, in punta di piedi e con attenzione come si conviene a un’esperienza di perdita e distacco. Di nuovo, rispetto al passato, ci sono le due ospiti alla voce, Ana Carolina Ojeda e Anna Murphy, ad aggiungere la loro sensibilità e arricchire il tutto, ma anche una sempre maggiore attenzione ai dettagli, alla profondità dei vari strati sonori che si intrecciano e interagiscono senza mai appesantire troppo il suono. Tutto bene? Si direbbe proprio di sì, almeno per chi apprezza dall’inizio la formazione e per chi si prenderà il giusto tempo per immergersi nell’ascolto. Poi, come sempre in questi frangenti, serve essere disposti a lasciar da parte pregiudizi e steccati di genere a favore della propria curiosità, di una voglia di mettersi in gioco pari a quella dei musicisti coinvolti. Vale la pena? A fine corsa non possiamo che dare risposta affermativa.