MAMIFFER, Statu Nascendi
Nel presente mi sto concentrando sulla resurrezione, l’ascesa e su quegli aspetti della Dea che danno vita e guarigione, come anche sulle reminiscenze della Dea nella Vergine Maria. Sto portando alla luce le cose con gli occhi della vita e creando nuovi sistemi basati sull’abbondanza e la scelta. Gli archetipi della mandibola, del canto e dell’orazione, della comunicazione e del superare gli ostacoli, della trasmigrazione e della palingenesi sono importanti per me.
Nel nuovo disco di Mamiffer celebro la divinità che si cela nella ripetizione, con le mani giunte, in preghiera, attenta. Al di là dei confini culturali e di epoche diverse, questo aspetto sconosciuto/non riconosciuto della Dea si nasconde nell’inconscio collettivo e io sto cercando di capire come risvegliarlo.
(Faith Coloccia in “Double Mirrors”)
Qualche mese fa, nel periodo in cui stavo intervistando Faith Coloccia per “Double Mirrors”, venne fuori che il nuovo disco dei Mamiffer sarebbe stato decisamente più pop dei precedenti. La cosa non mi stupì più di tanto perché, se Mare Decendrii era un’opera elegiaca, fortemente contaminata con la musica colta, ma ancora intima e ancestrale, Faith non ha mai nascosto la sua passione per certo pop etereo e tutt’altro che stucchevole (dal collettivo Fovea Hex all’ormai transgenerazionale Julee Cruise). Ciò non significa che questo disco non mi abbia un po’ – piacevolmente – spiazzata. Se vi aspettavate un lavoro di pop sofisticato, arrangiato e in qualche modo agonistico, rimarrete sicuramente delusi. La stessa Faith lo considera un capitolo di transizione tra Mare Decendrii e il terzo, vero e proprio, full-length, che uscirà nel 2015. E però Statu Nascendi non è certo deludente, ed è anzi forse l’uscita più onesta e personale dei Mamiffer, una sorta di ritorno a sé, col senno di poi, a partire dalla traccia d’apertura, “Celestis Partus”, che suona come una litania motivazionale, un manifesto, a sancire l’ennesima trasformazione di Faith, attraverso le varie re-incarnazioni di Mara, Mare, Inanna, fino ad arrivare alla Vergine Maria dell’incipit. E dentro si ritrovano in piena luce tutte quelle cose a cui il duo Turner-Coloccia si è appassionato intimamente, a iniziare dalle voci, che recuperano nelle armonizzazioni e nei caldi riverberi Novanta tutta la loro forza nostalgica, attualizzata in una musica però ancora presente. “Enantiodromia” è una parabola di opposti dove Faith e Aaron, un organo roteante e una chitarra ambientale, scivolano l’uno nell’altra, in una suite che sembra il rovescio fantasma di quelle, tonde e imbellettate, del disco precedente. Se gli Earth, via Jodis, venissero per un qualche motivo ammessi in purgatorio, forse suonerebbero così. Ma c’è di più: sotto ai layer vocali (che risentono delle fortunate collaborazioni con Jessika Kenney), taglienti field recording crescono, evocando lo spettro dell’amico Daniel Menche (che ha anche lavorato al video promozionale) e di una certa, perdonatemi l’abusato termine – contemporaneità. Ça va sans dire, Faith viene dall’arte: qui ogni operazione è sempre pensata, analizzata e decifrata prima di essere messa al mondo, eliminando ogni semplicismo di sorta per abbracciare quella semplicità che è frutto di anni di sperimentazione.
Dunque le ramificazioni possono spingersi fino agli albori del progetto (“Mercy”, che riporta ai Mamiffer di Hirror Heniffer, con la voce a doppiare le poche note di un pianetto circolare a mo’ di filastrocca). Non c’è batteria a disturbare quello che sembra più un incontro intimo tra marito e moglie che una performance destinata a un pubblico, tanto che il solo ascolto sembra un’incursione nella loro casa sull’isola di Vashon.
C’è invece continuità con quella scena di ambient-folk trasognato e martoriato di una Kranky alla deriva (ricordate Jessica Bailiff e i Clear Horizon?), soprattutto nella traccia di chiusura dove la chitarra è registrata con un microfonaccio da due soldi, a catturare una distorsione oscena, in barba ai muri di suono sinuosi e conturbanti degli Isis, là dove gli echi della Sinead O’Connor di “ Universal Mother” spadroneggiano in un rosario indifferente a quanto accade sul fondale.
Dal 2011 ad oggi di acqua sotto ai ponti ne è passata moltissima (il neonato progetto tra Aaron Turner e James Plotkin – Jodis – le collaborazioni con Locrian, Circle, Alex Barnett) e tuttò ciò ha sicuramente contribuito a rendere magmatico e disorientante un itinerario iniziato in maniera piuttosto lineare. Un disco così è un atto di coraggio in un momento in cui nel giro dilaga un’imperante massimalismo, ma a pensarci bene il duo ha sempre oscillato, enantiodromicamente, tra felici opposti. E, come sempre, è arrivato dritto al segno.
Tracklist
A1. Caelestis Partus
A2. Enantiodromia
B1. Mercy
B2. Flower Of The Field