MAHAKARUNA QUARTET, Inventum
Territorio fertile e da monitorare quello friulano, almeno per quanto riguarda il jazz: Gabriele Cancelli, qui alla cornetta, e Giorgio Pacorig, qui al piano, già assieme negli ottimi Maistah Aphrica (recuperate il loro disco d’esordio, ne vale davvero la pena, ne abbiamo parlato qui) formano un agguerrito quartetto con Cene Resnik ai sassofoni e Stefano Giust alla batteria.
Siamo nel bellissimo ma scivoloso territorio dell’improvvisazione, pur partendo da nuclei tematici molto forti (le canzoni sul lavoro). Questo gruppo però è una vera forza della natura e la navigazione procede senza alcun problema, tra isole che ricordano il continente Mu di Don Cherry (il finale della terza traccia) e il piglio malinconico e rivoluzionario della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden (“Le 8 Ore”). Il primo pezzo, “Inventum”, apre il sipario su mondi che fanno pensare al recente disco dei Chicago London Underground con Mazurek e Hawkins, ma non svela ancora nulla, lasciandoci persi a vagare tra paludi contemporanee, ombre novecentesche e sentori di dramma e di caos incipiente (come una versione più educata e riduzionista di Alan Silva And His Celestrial Communion Orchestra) grazie ad un afflato felicemente impressionista. In “Auf Und Geht”, invece, un tema trascinante e sbilenco che sa di sarabanda alla Art Ensemble altezza Bap- Tizum viene messo in scena per poi essere sballottato in ogni dove da ficcanti e serrati dialoghi improvvisativi che trasformano la giungla in caos urbano, in città nuda. Trascinante e da riascoltare più e più volte, perché sa sempre svelare nuove prospettive e nuovi tesori. Ottimi i dialoghi e le scaramucce tra il sax robusto di Resnik e la cornetta ficcante di Cancelli, ricco e mai prevedibile il pianismo di Pacorig, libero e antiretorico Giust alla batteria. A un certo punto, durante l’ascolto dei nove minuti di questa traccia, si va completamente alla deriva, ma i nostri non perdono mai la bussola e affrontano la bufera con piglio sicuro: mentre piano e batteria montano e smontano armadi pieni di caos, i fiati cercano di mettere tra parentesi la tempesta oppure aggiungono furore al furore. Poi tutto si placa e sfocia nel tema de “Le 8 Ore”, commovente e riuscitissimo in questa veste free. Perché la musica libera e la bellezza di ciò che non è prevedibile e incasellabile sono una scelta politica, sempre più in questi tempi democratici e post-novecenteschi.
Il disco è una registrazione live effettuata a Monfalcone presso Il Carso in Corso il 30 aprile 2016, nell’ambito della serie di concerti “Verso il 1° Maggio”, quindi non c’è soluzione di continuità tra un brano e l’altro. Un lungo , fertile flusso di invenzioni, come un Rio delle Amazzoni che svela a ogni ansa nuove terre ed animali nascosti, per cui anche un canto dei gondolieri (“Il Canto Dei Battipali”) trova posto in questo viaggio, dove il filo (rosso) del lavoro serve a cucire tradizioni e folklori lontani (dal Brasile alle mondine) con estro e piglio combattivo e mai didascalico. Il modo migliore per omaggiare una tradizione , quella dei canti del lavoro, e una dignità che oggi da molti, troppi lati pare è messa sotto attacco. Invece che rispondere con inni e slogan forse sterili e vuoti, Mahakaruna Quartet (nelle antiche lingue indiane pali e sanscrito “Mahakaruna” significa “grande compassione”) stilano una dichiarazione d’amore per l’invenzione, usando quei materiali come punto di partenza per liberissime e coraggiose escursioni nei meandri di un free limpido e poetico (i dieci minuti de “Il Canto Dei Battipali”, dove il tema viene esposto dopo cinque minuti di preludio avant che non sa affatto di scontato, ma anzi fa risaltare in tutto il suo nitore il bel tema esposto poco dopo). Archie Shepp, Sunny Murray, Ronnie Boykins, tutto il catalogo Byg e quello Esp, insomma l’epoca aurea del free, questi paiono i riferimenti immediati, assieme alla scuola olandese (Misha Mengelberg?) e alla selvatica follia degli spietati e liricissimi Koch-Schütz e Studer (il libero gioco delle associazioni mi ha portato lì ascoltando “Labor”, anche se qui il clima è più classicamente free rispetto alle ansie elettroacustiche del trio svizzero ), per una musica che in realtà per un’ora abbondante ci parla una lingua con salde radici nella storia ma aperto al possibile, al futuro ed anche all’impossibile (la malinconia dolente di “Cantigas Do Maio”, del brasiliano José Alfonso).
Un disco molto bello e al quale ritornare nel tempo, suonato e composto da musicisti da seguire, senza riserve. Scrivete qui (mahakarunaquartet@gmail.com) per farlo vostro.