MACIE STEWART, When The Distance Is Blue
Macie Stewart è una compositrice, multistrumentista e improvvisatrice di stanza a Chicago, dove negli ultimi anni ha avuto occasione di collaborare con una gran quantità di musicisti provenienti dalle scene più disparate, a conferma di un talento irrequieto e curioso. La troviamo infatti nei dischi di Makaya McCraven e dei Resavoir, a fianco di Rob Mazurek o di Ken Vandermark, in duo con la violoncellista Lia Kohl e ancora nel trio di improvvisazione The Few, nonché nel duo con Sima Cunningham in quello che è probabilmente il suo progetto più vicino a un certo art rock o ultra pop disinvolto e ironico (si sono chiamate dapprima Ohmme, poi Homme e infine Finom).
When The Distance Is Blue – che esce per International Anthem (e non c’è bisogno di dire quanto questa sia da anni una delle etichette di punta del panorama internazionale) – è un disco bello e straniante, un album complesso e affascinante. Frutto di passaggi e momenti diversi tra loro, riunisce, in una forma narrativamente complessa ma coerente, registrazioni sul campo (effettuate tra aeroporti e mercati), momenti di sublime solitudine al pianoforte, preparato o meno (primo strumento della giovane Macie), e quartetto d’archi (con Lia Kohl al violoncello, Whitney Johnson alla viola, Zach Moore al contrabbasso e la stessa Macie Stewart al violino).
“Volevo ricontestualizzare queste registrazioni ed evocare una nostalgia per qualcosa che non saprei nominare”, sostiene Stewart, che descrive il disco come “una lettera d’amore per quei momenti di passaggio”; l’ascolto stesso dell’album rappresenta una sorta di viaggio interiore quanto esteriore, ispirato da quei momenti che trascorriamo in transito, in uno spazio intermedio, a riprova di una condizione nomadica che vale per molti musicisti, mentre il modo in cui il disco è organizzato – con paesaggi sonori che tornano a unire i brani più strutturati – fa tornare alla mente la poetica del terrain vague cara alle avanguardie storiche: spazi promiscui, indefinibili ma fondamentalmente improduttivi e proprio per questo aperti a usi diversi e imprevedibili.
Ma c’è anche un’altra possibile chiave di lettura del lavoro della Stewart che sembra evocare la nostalgia e il desiderio e, perché no, la nostalgia del desiderio.
Una musica spesso indefinita, vicina ad alcune soluzioni contemporanee e prossima a certe sperimentazioni della Stewart al fianco di Lia Kohl o a certe soluzioni proposte da Claire Rousay, dove le tessiture screziate si aprono a voci trovate, a suoni sparsi, a vivaci momenti d’assieme: un percorso perturbante che trova il suo compimento nell’ultimo brano, nel quale la stessa frase è ripetuta ogni volta più lenta e distorta, con un effetto di scordatura, e finisce per collassare su sé stessa.