LUZ, 17/3/2019
Mantova, Sala Convegni del Campo Canoa. Grazie a Nicola Malaguti per le foto.
Per la rassegna You Must Believe In Spring, curata dall’associazione 4’33’, dopo averci già suonato per presentare il loro primo disco, Polemonta, con Tomeka Reid al violoncello, arrivano a Mantova i romani Luz, passati nel frattempo a una classica formazione a tre, ma dal sound atipico: Giacomo Ancillotto alla chitarra e al banjo, Igor Legari al contrabbasso, Federico Scettri alla batteria. L’idea della rassegna è quella di portare la musica anche in posti dove di solito le pareti non risuonano delle vibrazioni degli strumenti: se il concerto di Larry Ochs col suo progetto The Fictive Five era negli spazi di Danzarea, nel centro storico della splendida città lombarda e a un tiro di schioppo dal lago, stasera invece siamo dall’altro lato di Mantova e dal balcone dello spazio Campo Canoa (pensato, appunto, per canoisti) è possibile ammirarla in tutta la sua sontuosità.
Encelado, il secondo disco dei Luz, è un ottimo lavoro, ironico, visionario, denso di ruggini e di aperture cosmiche (il tema dello spazio e del deserto sono ricorrenti) e il live non fa che confermare che il progetto merita assoluta attenzione: si parla di satelliti, di pianeti di ghiaccio con un oceano caldo al loro interno (è il contrabbassista a presentare con leggerezza e ironia le composizioni). Il cuore ritmico pompa groove, spesso in sottrazione; blues aridi e minimali che nello svolgimento si fanno hillbilly psichedelici, poi il banjo e la chitarra ad aggiungere microgrammi di acidità (nel senso di mescalina) a una visione che già in partenza è lievemente sghemba, allucinata. Che nel deserto non cresca qualche peyote? Non immaginatevi però una jam freak: siamo semmai all’incrocio tra i Calexico degli esordi (ricordo con gioia il loro primo concerto a Bologna, secoli fa, eravamo quindici a dire tanto), Guano Padano e Lounge Lizards. Qualche passo novecentesco, detriti elettrici, il contrabbasso che si sofferma su poche note, sempre quelle giuste, una pulsazione sospesa a mezz’aria, tra nuvole di vaghissima psichedelia e un Bill Frisell metafisico e ironico, lanciato dentro un tunnel del vento. Visioni, demoni della foresta e cosmonauti sovietici, una sottile vena surreale che informa le composizioni e una perfetta capacità di calibrare dinamiche, silenzi, di creare spazio: in conclusione grande talento nel porgere con leggerezza disegni i a volte complessi ma che scorrono via sempre in modo estremamente naturale. Con l’ombra di Marc Ribot ad annuire sullo sfondo, nascosta dietro un cactus. Dai telescopi del deserto di Atacama si intravede, nella parte di cielo che si affaccia sul mondo dell’altro lato, una nuova stella nella galassia che ruota intorno a ciò che abbiamo il vezzo di chiamare jazz: Luz.