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LUSTMORD, Dark Matter

Brian ‘Lustmord’ Williams è un artista molto più eclettico di quello che si crede. È normalmente considerato il papà del dark ambient (Heresy, 1990), ma nei dischi usciti negli ultimi dieci anni, che possono piacere come non piacere, ha collaborato con i Melvins, con Maynard James Keenan  e Adam Jones (Tool), poi con Aaron Turner (Isis), Jarboe… e ha remixato in chiave dub dei pezzi dei Puscifer, per restare nell’ambito della famiglia Tool.

Oggi torna su Touch, da solo e in qualche modo più vicino al sound grazie al quale s’è affermato. Non penso che lo faccia per battere cassa andando sul sicuro (come capita a certe band che giocano la carta del cambiamento, non fanno soldi e si ri-presentano dai vecchi fan con qualcosa che li accontenti), perché Dark Matter è un’idea di cui ha parlato per un sacco di tempo nelle interviste e alla quale solo ora è riuscito a dare seguito concreto, dopo anni in cui ha raccolto il materiale scarso di cui si compone il disco. Williams, infatti, si è creato un archivio di “suoni” spaziali fornitigli dalla NASA e da vari osservatori: vibrazioni elettromagnetiche che viaggiano nel vuoto, alcune al di fuori della capacità percettiva del nostro orecchio, ma portate nel nostro campo uditivo da dei software (un procedimento simile a quello di Pietro Riparbelli con le onde corte, per restare nel genere). Così facendo, Lustmord, ripulendo molto la materia grezza e rumorosa di partenza e adattandola alla sua estetica, ci ha restituito l’attività di stelle, pianeti e galassie. A differenza che in certi suoi primi dischi, che ci davano una sensazione di pericolo, qui sembra di ascoltare il respiro di creature eterne e indifferenti alla nostra esistenza, adagiate da qualche parte in un’immensità a tratti affascinante, a tratti in grado di gettare nello sconforto più assoluto. Un Lustmord puro ed essenziale, dunque, che non rinuncia però a bassi spaccapavimenti e a qualche suono alieno che ghiaccia il sangue nelle vene. “Nello Spazio nessuno può sentirti urlare”, dice la tagline di un vecchio capolavoro, ma – aggiungo io – se noi potessimo sentire nello Spazio forse ne moriremmo.

Tracklist

01. Subspace
02. Astronomicom
03. Black Static