LULLABIER, Verità Rivestite D’Ombra
Andrea Vascellari (Treviso) in arte Lullabier, un giovane che già ha aperto un concerto di Jessica Bailiff, colpisce per l’alacrità della sua ricerca artistica e per la sua produttività, avendo fatto uscire durante il 2011, nel giro di poco tempo, ben due album: Mai Nulla Di Troppo ad aprile (scaricabile gratuitamente) e Verità Rivestite D’Ombra a maggio.
La prima cosa a saltare all’orecchio è il minimalismo etereo, dei testi e della musica, costruito mediante la sottrazione di quanto superfluo (non pare quindi una casualità che, come nota Gianluca Veltri, tutti i titoli siano composti da una sola parola). Ci sono poi delle dialettiche costanti tra gli arpeggi di chitarra e le basi elettriche, tra i riferimenti alla classicità greco-latina e quelli alla vita di ogni giorno. Capita di rado che un album si apra con un’invocazione al monte Elicona, seguita da quella alla Musa, o che figure mitiche (Calliope) convivano con oggetti quotidiani come una cyclette…
Il cantautore sembra suggerire che proprio da cose a prima vista insignificanti, ma in realtà custodi di “verità rivestite d’ombra”, scaturisca l’epifania: Lullabier rende poeticamente queste verità con una sorta di correlativo oggettivo in grado di trasformarle in allegorie (pensare a frasi come sopra una cyclette pedalo e non raggiungo un obbiettivo: infiniti punti medi mi separan dall’arrivo). Sono dicotomie che creano un effetto straniante, una sorta di distonia emotiva, una tristezza controllata e immersa in un’atmosfera crepuscolare.
Ogni volta che ci troviamo davanti ad artisti alla ricerca di un proprio stile è sempre difficile affibbiare un’etichetta al loro genere. A causa di arrangiamenti scarni e ritmi rallentati che ricordavano i Low (gruppo molto apprezzato da Andrea), si è parlato di slowcore (o slo-core, che dir si voglia). Come spesso accade, però, le griglie imposte dalla (legittima?) necessità di catalogare sono strette: così in “Chance” (paradossalmente, l’unica con un titolo non in italiano) si colgono rimembranze battistiane, mentre in “Crepuscolo” troviamo stilemi tipici della ballata struggente. Alcuni si sono lamentati di linee vocali un po’ deboli, ma a ogni modo va riconosciuto che quel tono da litania, quell’impostazione un po’ derivata (quasi un omaggio a Mark Kozelek dei Red House Painters, altra band che forma il background di Andrea), ben s’intona col clima generale del disco.
Un lavoro ben fatto, davvero: la strada imboccata sembra essere quella giusta.