LUCA SIGURTÀ
Warm Glow colpisce per l’estrema cura con la quale sintetizza melodie e “rumore”, non a caso lo stesso musicista conia un termine come “trip-hop-noise”. L’ultimo disco è comunque solo una delle sue tante facce, lui è uno che non se ne sta con le mani in mano, e prova a metter su nuove collaborazioni e a suonare anche all’estero. Non è un caso, forse, che sia riuscito a far pubblicare il lavoro in questione dalla polacca Monotype Records. Non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione per fare un primo bilancio sull’album, e per capire meglio chi è e da dove viene Luca Sigurtà (foto di Stefano Majno).
Ciao Luca. Parliamo subito di Warm Glow. Che tipo di accoglienza ha avuto, e dimmi se sei soddisfatto del risultato finale.
Luca Sigurtà: Devo dire che finora l’accoglienza è stata decisamente positiva. Le recensioni e i giudizi sono stati ottimi e questo non può che rendermi felice. Ho lavorato molto alla realizzazione del disco insieme a Gianmaria Aprile, che l’ha prodotto, e l’uscita su un’etichetta importante a livello internazionale come la Monotype Records è stata il coronamento del percorso.
Ho peraltro già portato in alcuni tour promozionali il materiale del disco, e la risposta del pubblico è stata calorosa.
Secondo me hai posto l’accento su una (solo all’apparenza) insolita vena melodica, tra virgolette, e hai fatto bene, dato che ne esce una versione di pop (anche qui, tra molte virgolette) che io amo definire per paradosso quasi “perturbante”. Da quali esigenze nasce questa propensione stilistica?
Ho cominciato ad avvicinarmi a questo tipo di sonorità subito dopo l’uscita di Bliss, il mio disco precedente. Stavo registrando lo split con i Panicsville e ho iniziato a sperimentare ritmiche più trip-hop. Ho visto che la cosa funzionava, e questo tipo di sonorità mi permetteva di approfondire nuovi percorsi sonori non fossilizzandomi all’interno di schemi di genere troppo stretti e vincolanti. Ho deciso di accostare alla parte più “sperimentale” una componente più pop, aprendo la strada alla “melodia”, che mi ha consentito di allargare lo spettro di possibilità sonore. Ecco perché definisco il tipo di musica che faccio trip-hop-noise.
Il tuo cammino discografico è complesso, direi volutamente “irregolare”, ma soprattutto costellato da collaborazioni prestigiose anche molto diverse tra loro: Francisco López, Claudio Rocchetti, Matteo Uggeri, Andy Ortmann dei Panicsville, sei in pianta stabile nei Luminance Ratio, e hai pure fatto un remix per i Melampus. Sei un tipo irrequieto per natura?
Sì, decisamente… Diciamo che mi piace cimentarmi con vari stili musicali. Sono sempre stato attratto tanto dal silenzio quanto dal rumore, per cui amo collaborare con artisti di diverse estrazioni.
Per pensare e comporre Warm Glow te ne sei stato un po’ in disparte nella tua Biella, o l’album è nato nei ritagli di tempo, magari tra una data e l’altra?
La registrazione di Warm Glow è durata nel complesso un anno circa. I provini li ho realizzati a Biella, e successivamente ho portato tutto il materiale da Gianmaria Aprile nel suo Argolab Studio, e insieme abbiamo assemblato ed ultimato i brani. Il lavoro svolto da Gianmaria è stato fondamentale per la realizzazione del disco, lui è riuscito a capire che tipo di suono e di produzione volevo avere. Nel frattempo ho continuato a suonare dal vivo in solo e con i Luminance Ratio.
Ho sempre pensato a te un po’ come al nostro John Wiese, a parte che un po’ gli somigli pure secondo me, scherzo naturalmente. È il caso che mi spieghi meglio: io ti vedo come parte di quel giro di musicisti che ha provato, e continua a farlo tutt’ora, a portare avanti il verbo del “rumore”, ma nella maniera meno scontata possibile, e qui tornano Rocchetti, Ezio Piermattei, Fecalove (Nicola Vinciguerra), solo per fare qualche nome. Beh, potrei direi che non siamo messi poi tanto male nel Paese di Sanremo e delle band che tuttora scimmiottano l’alternative americano dei Novanta, no?
(Ride, ndr) apprezzo molto il paragone con John Wiese! Comunque sì, la scena italiana non ha nulla da invidiare alle altre europee. La ritengo infatti una delle – se non la più – floride e poliedriche. Il livello qualitativo degli artisti italiani è molto elevato. Quando mi capita di suonare in altre nazioni, molte persone con cui parlo conoscono ed apprezzano i progetti nostrani.
Dimmi qual è stato il primo disco che hai comprato in vita tua.
Ricordo ancora il pomeriggio in cui con tutti i miei risparmi comprai tre cassette, ovvero: il primo disco dei Clash, una raccolta dei R.E.M. dal titolo “Dead Letter Office” e “Born In The U.S.A.” di Bruce Springsteen. Delle prime due cassette nominate non sapevo assolutamente nulla, ma mi attirarono le copertine.
Dal vivo sei passato da una versione sì scarna, ma sempre oggettivamente votata al rumore (mi ricordo di quando ti ascoltai di supporto a Jason Lescalleet al Blah Blah), a qualcosa di più atmosferico. Ho sentito bene?
Atmosferico direi di no, diciamo che ho ridotto il rumore! Le mie esibizioni live hanno un approccio sì fisico come qualche tempo fa, ma la differenza sta nel tipo di sonorità proposte, con aperture più ritmiche e una maggiore costruzione ed attenzione alla composizione live.
Con quale artista ti piacerebbe collaborare più di tutti?
Beh, senza dubbio Jim O’Rourke, per il quale ho una vera e propria venerazione. Lo ritengo da sempre un mio punto di riferimento e un musicista dal talento incredibile. Un altro artista con cui vorrei collaborare è Aaron Dilloway (ex Wolf Eyes, ndr), che per me è ai vertici massimi di questi ultimi anni in quanto a qualità sonora ed impatto live.