Luca Perciballi, una predilezione per l’inconsueto
Approximately Grids With A Plan è stato il proverbiale fulmine a ciel sereno: avevo già ascoltato del materiale del chitarrista modenese Luca Perciballi, ma questo disco in trio con l’ottimo contrabbassista Andrea Grossi (un altro di cui abbiamo già parlato a più riprese) ed il batterista Andrea Grillini (impegnato in mille progetti, tra cui i grandi Tell No Lies di Nicola Guazzaloca trabocca letteralmente di idee. Suonato benissimo e ancor meglio scritto e prima pensato, questo esordio merita assolutamente di essere ascoltato, e speriamo che il virus molli il morso per permetterci di andare ai concerti con serenità: mi aspetto scintille dalla versione live di questi pezzi che, pubblicati da Aut Records a fine 2021, si inseriscono direttamente al vertice tra le cose più interessanti che l’anno scorso ci ha regalato. Non solo in Italia, per quanto mi riguarda. La conversazione con Luca ci svela i tanti lati della sua poliedrica attività, dalla residenza a Tempo Reale alle telefonate con Butch Morris, dal suo punto di vista sulla sua città (dove hanno vita il Node Festival e ci sono diversi concerti, quest’estate chi scrive ha visto l’esordio dal vivo del trio Pateras – Pilia – La Foresta al sogno giovanile di diventare Billy Corgan.
Il disco mi ha colpito per il suo essere difficilmente inquadrabile; ogni traccia ha tante facce, e ciò che emerge come fil rouge è una indomabile inquietudine che serpeggia dall’inizio alla fine. Mi spieghi come hai lavorato in fase di composizione e poi come avete lavorato in fase di registrazione? Tutto materiale scritto o c’è spazio anche per l’improvvisazione, come sospetto?
Luca Perciballi: Mi fa molto piacere che sia manifesto all’ascolto il carattere multiforme delle composizioni, perché vuol dire che ho raggiunto il mio intento: tutto Approximately Grids With A Plan vuole essere la celebrazione della combinatoria fra diversi piani sonori/fenomeni. Il motore delle composizioni è proprio la dialettica fra piani opposti: composizione/improvvisazione, orizzontale/verticale, piani ritmici differenti, registri, timbri, strumenti. Penso sia, da un punto di vista compositivo, una celebrazione del contrappunto, inteso come arte dell’intrecciare rifermenti. La composizione del materiale è iniziata alla fine del 2019 mentre ero in residenza a Parigi per un altro lavoro, Vox Organalis: lì ho iniziato a collezionare i materiali preparatori, le griglie a cui si riferisce il titolo, composti da intervalli, armonie e ritmi che, letti con metodologie simili a quelle seriali, sono diventati i materiali generativi delle composizioni. L’idea era creare strutture che si autogenerassero secondo principi propri. Laddove il processo ha la tendenza a fermarsi entra in gioco la volontà improvvisativa, normata dalla collocazione nella struttura drammaturgica del brano. Le tracce sono estremamente lunghe ed articolate, svariate pagine di materiale scritto, e hanno richiesto un enorme lavoro da parte nostra per potercene appropriare: ringrazierò per sempre i miei compagni Andrea Grossi e Andrea Grillini per aver messo così tanto impegno nel progetto. Una volta assimilate le composizioni abbiamo potuto collaborare alle direzioni improvvisative previste dalla forma, traendo idee dai nostri rispettivi approcci e aggiustando anche le parti scritte alla luce delle scoperte fatte. La struttura modulare dei materiali ci ha permesso di arrivare in studio di registrazione e ripetere semplicemente il processo, senza grandi editing e grazie alla cura di ripresa del suono realizzata da Simone Coen. L’obiettivo ultimo sarebbe quello di poter improvvisare liberamente ed entrare ed uscire a piacimento dalle sezioni di brani, giustapponendo anche moduli di brani differenti; se avremo la fortuna di esibirci tanto dal vivo punteremo a rendere il repertorio un calderone da cui attingere liberamente.
Nella tua bio parli del periodo con Butch Morris: vorrei che mi raccontassi qualcosa di quell’esperienza, un aneddoto, quello che preferisci.
Mi si riempie il cuore solo a sentire nominare Butch Morris, una persona che ha giocato un ruolo fondamentale nella mia formazione umana e artistica: l’ho conosciuto per caso durante i Seminari Estivi di S. Anna Arresi dove rimasi folgorato dal metodo della Conduction, di cui non avevo nemmeno sentito parlare. Sulla spinta dell’entusiasmo ho trovato il coraggio di presentarmi, ventenne o poco più, a Morris e chiedergli un’intervista necessaria a scrivere la mia tesi di laurea sul suo lavoro. Reticente sulle prime, dopo qualche minuto di riflessione nello splendido ristorante di Basilio Sulis, decise di darmi un appuntamento il giorno dopo. Ci trovammo in una S. Anna Arresi deserta, senza nessun posto dove andare: mentre camminavamo, Butch ancora stordito dal jetlag, incrociammo un signore sopra una moto quad che inchiodò e salutò Morris calorosamente. Si rivelò essere il proprietario dell’unico pub della piazza, chiuso quel giorno; senza tanti complimenti ci diede le chiavi del locale, ci portò fuori un tavolo e una cassa di birra. Rimanemmo fino a notte fonda a bere, parlare, discutere, io completamente rapito dalla statura dell’uomo e del musicista. Da lì una collaborazione continuativa, un po’ come allievo un po’ come assistente, che durò fino all’anno prima della morte di Butch per una dolorosa malattia. Ho imparato tanto, soprattutto in termini di atteggiamento, dalla sua vicinanza: era talmente di supporto e curioso che più di una volta mi chiamò a casa di mia madre senza preavviso; alzando la cornetta l’improvviso e caratteristico “Hi Luca, Butch here…”, preludio a lunghe chiacchierate sulle mie opinioni rispetto ai suoi recenti lavori a cui avevo assistito, il tutto con una differenza di fuso orario di 8 ore!
Trovo le tracce interessanti soprattutto perché difficilmente catalogabili, come ti dicevo, e se proprio devo trovare dei riferimenti ci sento nomi che sono lontani(ssimi) dal jazz: ti chiedo dunque come definisci tu la musica di questo disco, quali sono (o sono state) le tue fonti di ispirazione e se hai ascolti anche in ambito (avant) rock.
Domanda difficile: definire un territorio di appartenenza risulta complicato proprio perché il disco rimane una sintesi dei miei ascolti, i miei studi (con insegnanti aperti come Roberto Bonati o Paolo Rimoldi) e i miei interessi, che sono molto variegati. Il jazz è una musica che ho studiato e per cui ho ancora molta passione come ascoltatore (soprattutto le cose più remote nel tempo) ma che non mi appartiene più come modalità idiomatica o procedurale; da certo jazz la mia musica eredita un’indole progressiva, propulsiva, tesa al nuovo. Sicuramente i miei studi di composizione “classica”, se mi passi il termine, hanno contribuito molto alla conformazione di questo disco: echi di autori come Grisey, Ligeti, l’ultimo Donatoni risultano rifermenti a me evidenti; il brano “Breeding Cycle I” vorrebbe essere una pallida imitazione (nella prima parte per lo meno) del secondo “Impromptu op 90” di Franz Schubert. Da un punto di vista procedurale non posso che essere debitore di musicisti come Henry Threadgill o Tim Berne, che hanno sempre giocato con eleganza col rapporto fra improvvisazione e composizione, eliminandone di fatto le differenze di approccio in favore della drammaturgia complessiva e la ricerca dell’inaspettato.
L’art rock (i Sonic Youth li possiamo inserire o è art qualcos’altro?) non è tra i miei riferimenti principali: penso che l’affinità sia parzialmente timbrica proprio perché il mio strumento, la chitarra elettrica, è associata comunemente con quelle aree geografico/musicali. Sono sempre stupito di come la chitarra elettrica venga ascoltata più psicologicamente che auralmente: per la maggioranza delle persone vale l’equivalenza chitarra = rock, mentre per molti musicisti classici resta uno strumento dall’escursione dinamica incomprensibile; trovo invece sia uno degli apripista storici delle rivoluzioni elettroacustiche che si stanno rivelando così fertili nella contemporaneità della scena improvvisativa attuale.
Hai lavorato anche a Tempo Reale, a Firenze: raccontaci quell’esperienza.
Ho avuto la fortuna, per cui ringrazio ancora il direttore Francesco Giomi, di essere compositore in residenza a Tempo Reale per 6 mesi con l’incarico di scrivere un lavoro di 30’ sul rapporto tra composizione e improvvisazione, dedicato ad un solista a mia scelta e al Tempo Reale Electroacoustic Ensemble. Me ne sono uscito con un adattamento per contrabbasso solista (il mio amico fraterno e collaboratore Alessio Bruno), ensemble e video del racconto “La condanna” di Franz Kafka, chiamato “Outside was crowded with people and full of noise”. L’interazione dell’ensemble con la partitura (sia tradizionale che grafica) prevedeva un contrappunto (ancora lui, maledizione) tra il testo di Kafka, registrato in più lingue e modificato in tempo reale da Damiano Meacci, e dei video da me realizzati (che vedevano i personaggi del racconto coperti da maschere) proiettati su televisori a tubo catodico disposti accuratamente fra l’ensemble. Tutto questo è stato possibile solo grazie al grande supporto tecnico del Centro che ha messo a disposizione i televisori modificati della loro installazione Symphony Device. Esperienza elettrizzante che ha aperto una collaborazione con Tempo Reale (ad esempio con il mio progetto Fragile) ed è stata edita su disco per la loro collana Tempo Reale Collection.
La tua folgorazione nell’ambito della musica creativa? Cosa ti ha fatto decidere un giorno che avresti voluto cimentarti in questo campo?
Ammetto di avere una predilezione per l’inconsueto, il poco sentito, un po’ per curiosità intellettuale, un po’ per indole caratteriale da bastian contrario! Direi di poter elencare almeno tre shock musicali che possono essere inscritti nel campo della musica creativa: primo sicuramente l’incontro con Butch Morris e la Conduction, che ha distrutto le certezze di un bravo studente di jazz su cosa fosse l’improvvisazione; secondo l’ascolto del primo movimento del Concerto per Violino di Ligeti, un lavoro degli anni Novanta da cui mi sembra sempre di copiare sia come compositore sia come improvvisatore, che concepisce la scrittura come una giocosa pratica improvvisativa; ultimo ma non meno importante il vedere dal vivo un musicista immenso come Roberto Dani, che già allora, stiamo parlando del 2005, portava avanti una ricerca personale e rigorosa che mi ha trasmesso sia come insegnante che collega.
Cinque dischi fondamentali nel tuo percorso?
Difficile elencarli tutti! Citerò alcune cose a cui sono legato sentimentalmente senza commenti di sorta!
Smashing Pumpkins – Siamese Dream
Miles Davis – Relaxin’ with the Miles Davis Quintet
Steve Reich – Music for 18 Musicians
Paul Bley – Open to Love
Hilliard Ensemble – Perotin
E ultimamente, cosa stai ascoltando?
Da qualche mese ho deciso di disciplinare i miei ascolti, scegliendo pochissimi dischi da ascoltare con estrema attenzione ogni mese, in modo da contrastare la bulimica sovraesposizione a cui siamo costantemente sottoposti: questo inverno sembro prediligere musica poco densa di eventi come i Number Pieces di Cage nella nuova edizione completa di Another Timbre, il Rameau suonato in modo incredibile da Vikingur Olfasson per Deutsche Grammophone, Iki del performer giapponese FUJIIIIITA per Hallow Ground; unica eccezione alla quiete lo straordinario BEATS del trio Christopher Dell – Christian Lillinger – Jonas Westergaard per Plaist.
Progetti in cantiere? Collaborazioni dei sogni?
I progetti in cantiere sono, fortunatamente, sempre tantissimi: a dispetto del periodo storico poco felice io sto producendo dischi e progetti dal 2019 senza interruzioni! Sperando di portare Organic Gestures in tour il più possibile, inizierò la ri-scrittura dello stesso repertorio per organico allargato che vedrà il trio affiancato da 4 fiati, rhodes e vibrafono (pur riservandomi di cambiare la strumentazione in corso d’opera). In primavera vorrei registrare Safari, il trio cooperativo dedito all’improvvisazione con Tobia Bondesan e Stefano Costanzo. Nel corso del 2022 vedranno la luce il nuovo capitolo di The Black Box Theory (in duo con Ivan Valentini), un disco in duo di chitarre con Giorgio Casadei (un’anomalia nel mio percorso visto che le composizioni sono quasi canzoni senza parole) e alcune cose come sideman, tra cui il disco del collettivo Bluering Improvisers e l’evoluzione del gruppo italo-olandese Breathing Mechanics a quintetto, su musiche di Alessio Bruno e testi di Gabriele dalla Barba. Come compositore usciranno alcune colonne sonore legate a film d’autore e, in primavera, è prevista l’esecuzione di una parte di Clockwise, un mio lavoro per orchestra d’archi. Sulle collaborazioni dei sogni mi permetto di dire che una è stata realizzata: quella con Alessandro Bosetti, artista straordinario che io ammiro tantissimo. A seguito di una residenza nel 2019, quest’anno è finalmente uscito Didone, disco a cui collaboro insieme a tanti validissimi musicisti come Andrea Grillini, Glauco Salvo, Giulia Zaniboni, Simone Sferuzza e Dan Kinzelman. Una collaborazione che ho solo lambito nel 2010 e che vorrei fosse assolutamente realtà è quella con il chitarrista Marc Ducret, mio idolo di gioventù e musicista stellare.
Sei di Modena, siamo vicini: la vostra città rispetto alla mia (Reggio, ndr) mi sembra decisamente più attenta a certi suoni: tra i concerti a La Tenda, alla Torre ed il Node Festival, si può dire che qualcosa si muove, dalle vostre parti. Da noi, il nulla. Che mi dici a proposito?
Credo che la domanda necessiti di due risposte separate perché descrivere una città in cui si è cresciuti, in cui si è ritornati dopo anni fuori, che si ama/odia, sia sempre delicato, mentre trovo semplice tessere le lodi delle istituzioni che hai appena citato. Festival come Node sono sicuramente dei vanti cittadini, vista la programmazione di ampio respiro e l’organizzazione impeccabile della proposta. La programmazione coraggiosa che Jazzoff propone alla Tenda, un ombrello di proposte che vanno dal jazz tradizionale all’avanguardia di stampo improvvisativo, è linfa vitale necessaria, un riferimento culturale a livello regionale. Il Centro Musica è una realtà che sta permettendo, in sinergia con il progetto regionale SONDA, di produrre cose nuove e incentivare il meccanismo delle residenze (io ho lavorato con il citato Bosetti e ne ho appena conclusa un’altra in duo con Camilla Battaglia). Trovo anche interessante che le figure dietro queste realtà siano intrecciate l’una con l’altra: Jazzoff (nelle persone di Valeria Fangareggi e Federico Sigillo) si occupa sia dei concerti in Tenda che di parte delle attività della Torre, mentre Node e le residenze internazionali al Centro Musica hanno la fortuna di essere curate, almeno in parte, da Riccardo La Foresta, musicista favoloso e curatore di sempre più evidenti qualità. Fatte queste dovute premesse la scena cittadina è quella delle città di provincia: spesso queste realtà straordinarie non riescono ad impattare in modo attivo sulla vita culturale della città perché isolate, poco appoggiate dalle istituzioni e immerse in un clima generale di pigro benessere. Non vorrei apparire ingrato o spietato nelle mie valutazioni ma credo che Modena abbia bisogno di severità da parte di noi “operatori culturali” per poter svelare un potenziale latente innegabile, sia dal punto di vista delle strutture citate sia da quello dei numerosi artisti e creativi presenti in città.
Riesci a vivere solo di musica?
Se la domanda è “riesci a vivere solo della tua musica” la risposta è ovviamente no, e sinceramente non me ne stupisco: mi occupo di una materia che richiede un ascolto più specializzato del normale e che, di conseguenza, non può contare su grandi numeri per il suo sostentamento; ovviamente sto lavorando il più possibile perché questo possa accadere in misura sempre maggiore, ma è un processo lungo e che richiede l’appoggio di partner esterni. Se invece consideriamo anche il mio lavoro con il teatro, la danza, il mio lavoro di compositore in ogni ambito, l’insegnamento (per un breve periodo al Conservatorio di Bologna, attualmente alla Scuola Civica di Nonantola), le opportunità da sideman (anche nella canzone d’autore con i Fargas) e il lavoro di curatore (da due anni aiuto Roberto Bonati nella cura del Festival Parmafrontiere), direi di riuscire discretamente a vivere senza occuparmi di altro che non riguardi il campo musicale. Se devo riconoscermi un merito penso sia quello di una preparazione versatile, come strumentista e compositore, che mi permette di agire ad ampio spettro, di diversificare l’attività. Non lo ritengo facile e nemmeno riposante ma continuo a dare molta importanza al fatto di dedicare assoluta concentrazione al fare musicale, con la flessibilità necessaria per poter continuare a studiare con una certa regolarità.
Il tuo parere (spassionato, please) sulla scena italiana, esulando per un momento dal discorso della maledetta pandemia: com’è fare musica non allineata in questo nostro strambo paese?
Difficile, semplicemente difficile! Sta diventando difficile praticamente ovunque, me ne sono accorto frequentando diverse scene europee e confrontandomi con i colleghi, anche per la mancanza di un substrato culturale a supporto di queste attività e per l’evidente crisi della cultura umanistica all’intero della nostra società. Penso che a breve anche noi musicisti dovremo ristrutturare il nostro operato, adeguarlo a dei ruoli che stanno cambiando più velocemente di quanto siamo in grado di assorbire. La situazione italiana soffre di queste cose anche per l’esagerata frammentazione delle scene nazionali in micro gruppi isolati, spesso poco comunicanti gli uni con gli altri e per un’orrenda mancanza di educazione al suono e alla sua fruizione (preciso che non sto parlando di educazione musicale) tra le conoscenze di base della popolazione. Nonostante questo il numero di proposte artistiche degne di nota mi fa ben sperare nelle future evoluzioni, sempre che dal mondo politico ci si mobiliti a sufficienza per il supporto di realtà fertili culturalmente e non produttivamente.
Il tuo primo ricordo musicale? La prima cosa che hai suonato alla chitarra?
Nessuno sa che io nasco come pianista (viste le mie attuali capacità mi vergogno quasi ad ammetterlo): la chitarra è entrata nella mia vita relativamente tardi, verso i quattordici anni, mentre il pianoforte c’è sempre stato: un’esplorazione anarchica con pianoforte acustico e tastiere che è stata formalizzata in studi solo per un paio di anni (e poi ripresa con gli studi di composizione). Dovrò indagare il perché in una famiglia assolutamente non musicale come la mia, davvero per niente, ci fosse sempre un pianoforte o una tastiera a disposizione! Penso di aver passato ore della mia infanzia (dai quattro anni in poi) ad imparare ad orecchio i motivetti delle pubblicità o delle sigle dei cartoni animati, anche con un abbozzo di armonie (proto armonie che vorrei saper riprodurre anche ora)! Arrivata la folgorazione della chitarra, perché volevo essere Billy Corgan, penso di aver suonato con profitto “No Woman No Cry” dopo qualche mese di applicazione ed essermi sentito assolutamente un dio!