Love letter from Jerusalem In My Heart – Intervista sul Transmissions 2019
L’artista canadese è stato chiamato dai tipi del Bronson di Ravenna per curare una parte della nuova edizione del Transmissions Festival, l’altra è nelle mani di Martin Bisi. Abbiamo scambiato due chiacchiere con questo musicista del quale si fa un gran parlare e che ama tanto l’Italia. Leggete qui e poi andate al festival naturalmente.
Radwan, vado dritto al punto: ti sei dato delle linee guida quando hai scelto gli artisti per il Transmissions?
Radwan Ghazi Moumneh: Ad essere onesto, non mi sono dato una vera e propria linea guida. Quando mi viene chiesto di fare questo tipo di progetti, lascio sempre che l’istinto imponga ciò che dovrebbe essere programmato, sapendo che avrò inevitabilmente un tema alla base della curatela nel suo insieme.
Hai parlato con l’altro curatore, Martin Bisi, o avete lavorato separatamente?
Entrambi abbiamo fatto la nostra parte in modo indipendente; in realtà ci siamo conosciuti per la prima volta circa un mese e mezzo fa, quando lui era a Montreal per uno spettacolo. È incredibile avere la possibilità di fare questo con Martin. Ho ammirato il suo lavoro di produzione per così tanto tempo, lui ha prodotto alcuni dei dischi più influenti per me. È un vero pioniere, e sono onorato di essere associato a lui per questa edizione.
Sul nostro webmagazine abbiamo scritto di molte band e artisti presenti in questa edizione del Trasmissions: Martin Bisi e BC35, R.Y.F., Xylouris White, Oiseaux-Tempête… Sembrano tutti particolarmente adatti a una situazione “intima”, proprio come quella del Transmissions, non certo per grandi palcoscenici come ad esempio quelli di Primavera Sound. Sei d’accordo con me? L’intimità era uno dei tuoi criteri?
Sento che il mondo musicale in cui mi trovo ha ben poco in comune con grandi palcoscenici come quelli del Primavera Sound o simili. Quindi, per estensione, i tipi di musica verso cui gravito sono anche quelli che cadono abbastanza lontani dalla “norma” ed hanno poco interesse per un grande ambiente “festivaliero”. Quindi non è che la cerco questa intimità, piuttosto è proprio la natura dei generi.
Non sei nuovo nel ruolo di curatore: nel 2017 hai lavorato con Le Guess Who? (a Utrecht, nei Paesi Bassi), ed hai chiamato Nadah El Shazly e Oiseaux-Tempête, come quest’anno. Qual era il tema di quell’edizione di Le Guess Who? e quali erano i tuoi obiettivi in quel momento?
È divertente, perché tra il momento in cui c’è stato il Le Guess Who? e ora tanto è cambiato, soprattutto con questi due artisti. Loro sono da qualche altra parte nella personale evoluzione musicale e in un certo senso li vedo in modo così diverso, e sento che quello che stanno facendo ora e ciò che stanno offrendo è ancora più pertinente di quanto non lo fosse due-tre anni fa. Volevo presentare una cerchia di artisti che fossero davvero rappresentativi di una grande affermazione politica nelle loro esistenze, ed è praticamente la stessa cosa anche per Trasmissions. Chris (Angiolini, mastermind del festival, ndr) ha lavorato davvero duramente per rendere la mia lista dei desideri una realtà, trovare i finanziamenti, gestire la logistica e tutto il resto.
Dopo la tua collaborazione con Suuns, hai pubblicato Daqa’Iq Tudaiq: abbiamo amato molto quell’album. Stai pensando a un nuovo disco?
Grazie mille. Daqa’iq Tudaiq era come una montagna da scalare per me. Sono abbastanza contento di quello che abbiamo fatto come progetto, mi ha davvero preso molto. Per il 2020, sono piuttosto concentrato su una manciata di album collaborativi che devo terminare, ma contemporaneamente, con la mia partner in Jerusalem In My Heart, la film-maker Erin Weisgerber (l’altro regista che ha collaborato con lui è stato Charles-André Coderre, ndr) impiegherò i primi tre mesi del nuovo anno per lavorare su un nuovo set musicale e visuale. Da lì, penso che mireremo a provare a registrare a Beirut alla fine del 2020 e vedere dove ci porta. Mi piace lasciare che gli album vengano solo da me invece di inseguirli, motivo per cui tendiamo ad avere un divario di tre anni tra un disco e l’altro.
Provieni dal Libano. Come ti trovi in Canada?
La mia famiglia si è trasferita qui nei primi anni Novanta dall’Oman. Sono rimasti per una manciata di anni prima di decidere che non era per loro, e così sono tornati in Libano. Io sono rimasto in Canada perché volevo studiare ingegneria audio e suonare in gruppi punk.
Sei già stato in Italia, hai suonato in molti posti da noi. Che tipo di persone siamo, secondo te?
L’Italia per me è come trenta piccoli paesi in uno solo. Dire che è “un solo popolo” è una falsità. Sono così fortunato ad aver visto tante parti della Nazione, e non è un segreto quanto io sia culturalmente attaccato alla cultura italiana nel suo insieme: dal cinema, alla musica, dal cibo e all’alcool e al… Moto GP.
Naturalmente, come qualsiasi paese europeo con un passato coloniale oscuro e violento, e una costante ondata di estremismo sempre onnipresente, può politicamente essere un posto molto spaventoso. Siamo fortunati che, quando veniamo qui, siamo molto al riparo da quelle cose, per cui vediamo solo gli aspetti più sorprendenti della cultura sotto forma di eventi culturali, spettacoli, in cui sei presente su invito di persone che amano ciò che fai. Detto questo, è il mio posto preferito in assoluto per quando viaggio, e le connessioni che abbiamo fatto nascere nel corso di questi anni spero durino per sempre.