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LOOMINGS, Hey Weirdo!

LOOMINGS, Hey Weirdo!

Secondo disco per i Loomings di Jacopo Costa, italiano in fuga a Strasburgo, a seguire Everyday Mithology del 2015. La band è un sestetto con doppia voce, pianoforte, tastiere, sintetizzatori, vibrafono, elettronica, samples e in questo disco è presente anche una nutrita sezione fiati (tromba, trombone, sax alto, tenore e trombone). Ci sono ottime potenzialità (i musicisti coinvolti sono preparati ed attenti), ma la scrittura all’orecchio di chi scrive non è ancora del tutto a fuoco. Un mood pienamente canterburiano informa le lunghe composizioni, articolate e ricche di cambi di atmosfera, ma a volte l’impressione è che si perda un poco il filo del discorso, allungando con troppa acqua un brodo che per conservare il sapore originale doveva probabilmente restare più asciutto. Dal punto di vista del suono alle mie orecchie tutto suona eccessivamente levigato; le armonie vocali sono da manuale di certo rock in opposition ma a volte sfociano nella didascalia ed in generale la produzione suona troppo rotonda ed enfatica. Mancano spigoli, in sostanza, a una musica che cerca un appiglio in qualche modo pop, restando però a metà del guado, troppo arzigogolata per essere immediata e troppo educata per colpire nel segno (vedi in particolare certi suoni di synth). Se solo la band avesse il coraggio di uscire di più dal seminato, le cose cambierebbero. Ci sono diversi momenti in cui la bravura degli interpreti risalta con tutta evidenza, ed anche talvolta spazi in cui la scrittura si fa matura e convincente, ma quello che difetta in generale sono proprio i pezzi. Ritmi dispari, entropie, languori, piglio melodico sghembo e virtuosismo strumentale: gli ingredienti che hanno fatto grande una band come Hatfield & The North ci sono, ma non ci sono le canzoni. “Cerchi” fiorisce attorno al tema di “Central Park West” di Coltrane ma lascia freddi, ed è questa una sensazione che si ripete, anche con la title-track, che prova ad alzare un po’ le pulsazioni. Del weird, del bizzarro dichiarato nel titolo alla fine si avverte troppo poco, se non in qualche fugace passaggio su cui sarebbe stato opportuno concentrare invece l’attenzione, dimenticando le velleità della bella scrittura:  “Stratification”, ad esempio, è francamente un buco nell’acqua. Ed alla fine tra meraviglia e delusione (“Wonder And Delusion” si intitola la traccia di chiusura, ambiziosa ed interessante, ma dispersiva) prevale la seconda.