Live club in Italia: navigare in direzione ostinata e contraria
Quattordici mesi di pandemia. Per molti, più di un anno senza concerti, festival, eventi musicali di qualsiasi genere. E solo ora, nell’ottica di una progressiva riapertura che dovrebbe coinvolgere tutti i settori dell’economia, si sta iniziando timidamente a discutere di come, quando e a quali condizioni permettere ai live club di continuare a sopravvivere. Sì, sopravvivere: dopo un’intera stagione di eventi cancellati, mancati incassi e nessun aiuto concreto, non sappiamo quanti locali saranno in grado di riaprire i battenti.
L’estate scorsa ci sono stati alcuni tentativi di normalità, forse un’anteprima di ciò che ci aspetta nell’immediato futuro: ingressi limitati, mascherine sul volto, la stranezza di assistere ad esibizioni metal e hardcore seduti su seggiole di plastica posizionate a debita distanza l’una dall’altra. Non è il massimo, ma meglio di niente, diceva qualcuno. Ci saremmo adattati tutti. Ma l’illusione è durata poco: i numeri dei contagi condannavano la musica dal vivo, anche se il virus si diffondeva altrove.
Da allora, un intero settore, che da anni resiste con le unghie e con i denti in presenza di costi esorbitanti, affitti insostenibili e in assenza di politiche adeguate, è stato messo in standby. Ancora una volta, chi lavora e investe in questo campo è stato abbandonato a sé stesso, dimenticato, messo in disparte.
La crisi dei live club italiani non è purtroppo un fenomeno nato come conseguenza dell’epidemia, ma il Covid-19 potrebbe rappresentare il colpo di grazia per i nostri templi della musica, molti dei quali hanno già issato bandiera bianca. Noi di The New Noise abbiamo deciso di intervistare i rappresentanti di alcuni luoghi di riferimento per l’underground, con l’intento di fornirvi una fotografia di questo momento delicato e dare voce a chi dietro ai palchi lavora e ci vive.
Siamo ad un anno esatto dall’inizio del disastro. Facciamo il punto sulla situazione della vostra realtà: come siete “sopravvissuti” e cosa è cambiato a distanza di dodici mesi?
Stefano Conti (Traffic, Roma): Purtroppo non è cambiato nulla, anzi, sicuramente la situazione è peggiorata. Stiamo sopravvivendo solo perché nessuno è venuto a cacciarci o a rilevare l’immobile, perché ora il problema è questo. Ci sono molti sciacalli che vengono a comprare per pochi spicci posti che hanno fatto la storia di Roma, o gestioni familiari che vanno avanti da decenni. Per questa gente comprare e poi aspettare un anno a riaprire non è un problema. Prepariamoci a capannoni di import/export al posto dei nostri luoghi di musica e cultura.
Chris Angiolini (Bronson – Hana Bi, Ravenna): Bronson Produzioni è una realtà che esiste da ormai 18 anni. Siamo sopravvissuti a questa pandemia grazie alla diversificazione della nostra attività, avvenuta progressivamente nel corso degli anni. Se fossimo solamente promoter e organizzatori di eventi, non esisteremmo più. A distanza di oltre un anno non è cambiato quasi nulla, l’incertezza rimane costante, così come l’inadeguatezza dei ristori.
Teo Motta (Bloom, Mezzago – Monza): Il Bloom nasce nel 1987, quest’anno compiamo 34 anni e il 2020 è stato senza ombra di dubbio il più difficile della nostra storia. Il 21 febbraio dello scorso anno abbiamo ospitato l’ultimo concerto vero, e per “vero” intendiamo il concerto per come eravamo abituati a viverlo, ossia in presenza, senza limitazioni all’ingresso, con la gente accalcata sotto al palco e quell’energia nell’aria che solo un live può regalarti. Lo stop a questo tipo di attività ci ha costretti ad interrogarci sul nostro futuro e ad elaborare strategie per sopravvivere, per evitare la paura della chiusura che al momento non era nemmeno minimamente paventata e per ripartire, un giorno. Abbiamo spostato la maggior parte della nostra attività sulla rete, attivando uno shop online, organizzando una serie di eventi musicali, teatrali, corsi online e di talk/dibattiti inerenti il triste periodo storico, perlopiù incentrati sui problemi legati ai lavoratori dello spettacolo e al mondo che ruota intorno ad essi. Abbiamo realizzato “The Bloom Files”, un libro pieno di foto e ricordi delle persone che hanno letteralmente fatto il Bloom e i suoi 34 anni di gloriosa storia, abbiamo colto l’occasione per fare lavori strutturali all’interno delle nostre mura, rifatto la cucina, attivato un servizio di delivery di hamburger e birre artigianali (abbiamo anche creato la nostra birra, la “33”, in collaborazione con un birrificio artigianale del territorio), partecipato all’iniziativa “L’ultimo Concerto” e tante altre iniziative. Di base ci ha salvati il “fare rete” e il darsi una mano a vicenda con altre piccole/medie realtà nostre amiche e non, l’unione fa la forza.
Alessandro Dalla Vecchia (sPAZIO211, Torino): Togliamo le virgolette: sopravvissuti è il termine giusto. Parliamo però solo del luogo fisico, che è rimasto comunque un punto di riferimento per tutti quelli che ci hanno seguito negli anni, e che abbiamo fisicamente presidiato per tutta la durata dell’emergenza, poiché, purtroppo, le chiusure e la conseguente mancata frequentazione di un luogo situato in una periferia difficile come Barriera di Milano hanno portato all’abbandono della zona. Abbiamo vissuto sulla nostra pelle le conseguenze di questo stato di cose: lo sPAZIO211 è stato vittima di più di un furto, e l’area circostante è caduta in uno stato di degrado e lasciata a sé stessa. Fortunatamente si è innescata una spirale di solidarietà che si è concretizzata in una raccolta fondi: questa ci ha permesso di arginare i danni e mantenere un rapporto diretto con un pubblico che non si è arreso all’idea di perdere un luogo, a quanto pare, importante (per quanto visto come “non essenziale” dalle istituzioni). Inoltre la tregua estiva ci ha permesso di organizzare, seppur in pochissimo tempo, un festival che ha animato il quartiere per tutta la scorsa estate, breve ma essenziale boccata d’ossigeno prima del nuovo stop autunnale. Infine, la partecipazione a bandi sia pubblici che privati ha dato linfa a progetti che si concretizzeranno nel corso dell’anno incentrati non solo sulla musica, ma sulla riqualificazione del quartiere e – ci auguriamo – sulla costruzione di una nuova visione della socialità e del modo di vivere gli spazi. Quello che purtroppo non è sopravvissuto è l’offerta culturale di respiro internazionale che abbiamo sempre cercato di imprimere nella nostra programmazione, lasciando un quartiere e una città, da questo punto di vista, al buio e nel silenzio. Spiace poi constatare che dopo dodici mesi, al di là delle progettualità collaterali attivate, la situazione appare identica a quella d’inizio dell’emergenza.
Il momento è senza dubbio complicato e, per certi versi, è inevitabile navigare a vista. A differenza di quanto accaduto in paesi come Francia e Germania, dove le istituzioni non hanno tardato a fornire sostegno al mondo della cultura e dell’intrattenimento, da noi questi settori sembrano essere rimasti in fondo all’agenda politica per un anno intero (2 marzo 2021: il Ministero dei Beni Culturali stanzia 50 milioni di euro per live club, concerti, autori, artisti interpreti ed esecutori). Oggi, come e più di ieri, sembra che musica e cultura rappresentino una componente di serie B nell’economia del nostro paese. Anche voi vi siete sentiti abbandonati?
Stefano: Diciamo che non è una novità. Ci siamo sempre sentiti abbandonati dal nostro paese, non solo per quanto riguarda l’aspetto economico, ma soprattutto per quello culturale e ideologico. In Italia c’è una mentalità per cui ci si immagina sempre che i locali notturni esistano solo come copertura per affari loschi o, nel migliore dei casi, per hobby. In una situazione del genere speravo di vedere maggior solidarietà, specialmente perché molti di noi, me compreso, hanno famiglia, figli da mantenere. Invece ci siamo trovati nella condizione di difendere il nostro lavoro da attacchi mediatici in cui siamo stati definiti “untori”, “negazionisti”, “movida”, termini usati ad hoc per screditare qualsiasi nostra richiesta o spiegazione del motivo per cui ci stavano abbandonando.
Chris: Assolutamente, è stato piuttosto chiaro fin da subito come sia stata stilata una specie di lista dei “sacrificabili”: la cultura al di fuori delle istituzioni e l’intrattenimento erano sicuramente ai primissimi posti. Questo a livello nazionale, mentre devo ammettere che, a livello locale, la nostra città (Ravenna) e la nostra regione (Emilia Romagna) ci sono rimaste vicine e ci hanno accompagnato nel portare a termine diversi progetti, oltre ad aprire nuove vie di co-produzione.
Teo: Fortunatamente lo Stato in qualche modo ci ha aiutati, abbiamo ricevuto fondi da vari bandi emessi a livello nazionale e regionale e i nostri soci lavoratori hanno ricevuto le somme che gli spettavano, seppur insufficienti per “andare avanti”. Ovviamente questo non basta per tenere botta: le spese fisse a cadenza mensile (affitto, utenze…) hanno fortemente inciso sulle nostre economie, a tal punto da aver attraversato mesi veramente difficili. La cosa ci da un lato costretti e dall’altro spronati ad attivare l’inventiva per elaborare nuove strategie. Ci siamo affiliati a KeepOn Live che quest’anno ha fatto un lavoro davvero enorme ed è riuscita ad arrivare alle istituzioni riportando i problemi del mondo dello spettacolo, fino a che se ne è iniziato realmente a parlare, ma solo una volta arrivati alla pubblicazione del video “L’ultimo Concerto”. Ora sembra se ne stia parlando un po’ di più, ma ancora non basta.
Alessandro: Quello che ci ha lasciato più perplessi è la totale inconsapevolezza delle dinamiche proprie di questo settore, che necessita di processi di lungo termine per programmare, promuovere e organizzare gli eventi. La mancanza di certezze sulle riaperture rende improponibile realizzare qualsiasi proposta di livello anche solo medio-alto, e la non applicabilità nel concreto delle norme previste affossa definitivamente la prospettiva di ridare vita ai club. Questo al di là delle misure meramente economiche, che risultano comunque insufficienti al mantenimento dei luoghi e degli stessi lavoratori.
Esiste forse una concezione distorta della gestione di un live club, quasi fosse un’attività che non comporta le stesse incombenze e non richiede la stessa professionalità necessaria per mandare avanti un ristorante, un negozio o una qualsiasi altra impresa. Condividete questa sensazione? Da cosa deriva secondo voi?
Stefano: In parte ho risposto prima: confermo la sensazione, la proviamo da anni. Però prima, ad essere sincero, non ce ne fregava un cazzo. Il Traffic è sempre andato avanti grazie alle nostre forze, alle band che suonavano, ai ragazzi che venivano alle nostre serate e che ci hanno sempre sostenuto. Non ci siamo neanche mai avvicinati a certi mezzucci o favorucci per avere un sostegno da qualche istituzione o partito. Anche se la nostra idea politica è chiara, non abbiamo mai cercato nessun appoggio, e credo che questo sia uno dei motivi per cui ora dobbiamo difenderci da soli. Da marzo 2020 ad oggi siamo riusciti a lavorare solo 3 mesi con entrate ridotte al 20% e incassi ridicoli, e dallo Stato (tramite l’Agenzia delle Entrate) abbiamo ricevuto solo due ristori, uno a giugno e uno a novembre, con delle cifre che non coprono neppure un mese di affitto. Questo ti fa capire la situazione.
Chris: Sicuramente, al di fuori degli addetti ai lavori, nessuno ha ben chiara la difficoltà e la precarietà a cui si deve far fronte nel portare avanti questo tipo di attività, che viene davvero vista alla stregua di un hobby, quando invece sono coinvolte diverse professionalità e licenze piuttosto vincolanti. Credo che sia dovuto anche al fatto che ormai siamo rimasti in pochissimi a farlo professionalmente, per cui non abbiamo un peso come categoria.
Teo: Purtroppo fino ad oggi non è mai stato riconosciuto il valore e il ruolo dei nostri spazi al pari di quello che avviene, invece, per i cinema e i teatri (nonostante il Bloom sia anche cinema d’essai). Non ci potrà essere una vera ripartenza, se non sarà preceduta e accompagnata dalla sostenibilità e dal riconoscimento specifico per i Live Club, richiesto da tutta la categoria a gran voce da diversi anni. Le particolarità degli spazi da noi rappresentati – che sono delle colonne portanti del settore musica dal vivo – esigono per la loro ripartenza un orizzonte temporale concertato con le Associazioni di categoria che conoscono le specificità organizzative e programmatiche di questi spazi (compatibilmente all’andamento della campagna vaccinale e quindi alla curva dei contagi). Inoltre i Live Club in generale non godono di riconoscimento e, quindi, di misure di sostegno permanenti, perciò le priorità che il nostro settore rappresenta sono l’avviare il processo di riconoscimento dei live club come luoghi della cultura da sostenere e promuovere, siano essi sale private o circoli, e il fatto che il nostro comparto non potrà aprire con capienze ridotte.
Alessandro: Crediamo che questa percezione sia comune a tutti gli attori della filiera musicale, cristallizzato nell’ormai abusato “Cosa fai nella vita?” – “Il musicista”- “Sì ma di lavoro cosa fai?”, che per estensione si applica a fonici, direttori artistici, gestori, nella totale ignoranza dell’impegno e della formazione necessaria a garantire la buona riuscita di uno spettacolo. Forse perché questa stessa buona riuscita dipende da quanto tutto il lavoro necessario a costruirlo riesca a restare invisibile, lasciando spazio allo stupore e all’emozione dello spettatore. Ma sarebbe in ogni caso necessaria, a monte di tutto questo, una maggiore consapevolezza da parte del pubblico.
Domanda dolorosa: quali sono le prospettive nel caso le limitazioni dovessero protrarsi ancora a lungo?
Stefano: Le prospettive sono nere. Noi continuiamo a stare come presenza fisica al locale, ma ovviamente non abbiamo la possibilità di pagare nulla finché non ci danno la possibilità di lavorare (ai ristori, come dicevo prima, è inutile anche solo pensarci). A giugno avevano trovato una modalità per consentirci un minimo il lavoro, ma dopo soli tre mesi hanno deciso di colpire con forza i locali e il lavoro notturno (io lo chiamo cosi, non certo “movida”). Tutto perché è stato dato in pasto all’opinione pubblica quanto accadeva nelle discoteche del litorale o al Billionaire di Briatore. Io capisco l’esigenza di contenere i contagi, non viviamo sulla luna. Posso però assicurarvi che tra le persone venute da noi quest’estate non c’è stato nemmeno un contagiato. Abbiamo lavorato con attenzione, rispettando tutte le normative sanitarie anti-Covid, registrando i nomi dei partecipanti, misurando la temperatura e assicurandoci che tutti indossassero la mascherina. Per assurdo siamo il settore che ha investito di più per mantenere distanziamento, posti contingentati, sicurezza sul palco e altri mille cazzi.
Chris: Le prospettive nel nostro caso sono quelle di concentrarsi sulle altre attività che abbiamo intrapreso in questi anni, e limitare gli eventi alle sole progettualità in co-produzione con le istituzioni.
Teo: Viviamo di socialità, di contatto fisico e di condivisione, le limitazioni ci hanno tagliato le gambe e se dovessero protrarsi la vediamo davvero grigia. È impensabile andare avanti di questo passo, come lo è il continuare a fare eventi con ingressi contingentati e soprattutto con coprifuoco, e ne sono di triste esempio i tanti locali che hanno chiuso in questo periodo di pandemia. Molti club e circoli che fino all’inizio del 2020 stavano lavorando benissimo si sono trovati costretti alla chiusura, e questo fa male. Posti come il Bloom sono la salvezza per molte persone (questo lo dico da frequentatore di concerti, cinema e luoghi di aggregazione).
Alessandro: Purtroppo la prospettiva è che gli spettacoli dal vivo, per come li conosciamo, smettano di avere luogo. Quasi sicuramente sopravviveranno i grandi eventi con in cartellone i nomi imposti dall’industria dell’intrattenimento, ma il concerto come performance in grado di esprimere concetti e sentimenti, come veicolo espressivo in particolar modo per gli artisti emergenti, sarà un’esperienza da considerarsi finita.
Domanda ottimista: avete progetti per sfruttare ogni possibile spiraglio? Quali sono i piani per ricominciare?
Stefano: Noi, anche se abbiamo il morale a pezzi, diciamo che siamo pronti per la riapertura del 26 aprile con tutte le limitazioni. Certo la programmazione, che è la nostra linfa vitale, ne risentirà, ma sono sicuro che molte band amiche ci daranno una mano per riempire le serate anche con poco preavviso, garantendo la sicurezza per tutti. Il problema però è questo: se apro oggi e dopo una settimana mi fanno richiudere è peggio. Visto che non ci danno aiuti, non posso permettermi di perdere nemmeno un euro, e aprire per poi richiudere è solo una perdita di soldi.
Chris: Nel nostro caso in estate ci spostiamo dal Bronson all’Hana Bi, dove già durante la scorsa stagione siamo riusciti ad allestire una programmazione all’aperto in spiaggia nel rispetto dei protocolli vigenti.
Teo: Abbiamo molti progetti in cantiere, tutti elaborati in questi ultimi mesi e progettati per durare nel tempo. Ci piace pensare che ogni nuovo obiettivo che ci poniamo di realizzare non ci dia solo una mano in questa difficile situazione, ma soprattutto che duri e cresca nel tempo. Abbiamo avuto la possibilità e colto l’occasione di interrogarci sul nostro futuro, studiando i nuovi trend e cercando di adeguarci il più possibile dal punto di vista tecnologico. Diciamo che nel disastro questo è stato anche un anno pieno di nuovi stimoli. Intanto aspettiamo l’estate: dal 1° giugno apriremo la pizzeria all’aperto sulla nostra terrazza che andrà avanti fino a inizio settembre e partiremo con una serie di arene di cinema all’aperto. Incrociamo le dita!
Alessandro: Sicuramente abbiamo il vantaggio di poter contare su un ampio giardino che già in passato ha ospitato festival e rassegne, e se, come si prospetta, saranno possibili e/o sostenibili soltanto le manifestazioni all’aperto, avremo almeno una stagione estiva su cui concentrare il nostro lavoro di produzione culturale. D’altra parte questo periodo di inattività forzata, almeno sul versante degli eventi, ci ha portato a ripensare gli spazi aprendoci ad altre esperienze sul versante sociale, ospitando spazi per il co-working e per gli studenti. Sono inoltre in attesa di approvazione progetti per la riqualificazione del parco che ci circonda, attraverso la costruzione di orti urbani e percorsi sensoriali per bambini e diversamente abili. Crediamo che la direzione da intraprendere sia quella di affrancarsi dall’essere “solo” una sala concerti e diventare un centro culturale polivalente.
Tutti i mali di questa categoria vengono ormai attribuiti alla pandemia, tuttavia chi opera nel settore sa bene che questi luoghi capaci di lasciare il segno in generazioni di appassionati di musica sono costretti a stringere la cinghia da anni. Il Covid-19 ha semplicemente messo in luce una situazione che era già critica per cause più profonde?
Stefano: Ti giuro, mi mancano questi problemi. Ovviamente non ci siamo presi un lavoro facile, con un genere di massa, o per accontentare troppe categorie. Noi siamo partiti dalla passione che abbraccia i nostri gusti musicali, i nostri luoghi e le nostre persone. La mia formazione live e quella dei miei collaboratori o promoter esterni proviene per la maggior parte dai centri sociali, dall’organizzazione di festival di musica punk, hard-core o metal. Anche se cerchiamo sempre di allargare i nostri orizzonti non dimentichiamo mai da dove proveniamo, e questa è una mentalità che non abbandoneremo mai.
Chris: Sì, è assolutamente così, si tratta di un settore che stava vivendo già una forte crisi prima del Covid-19. Per un piccolo imprenditore privato l’organizzazione dei live era già un’attività con una marginalità ridotta al lumicino, che con l’alzarsi continuo dei costi era già quasi sempre in perdita. Non è un caso che il mercato della musica dal vivo fosse già passato in larga parte nelle mani delle multinazionali.
Teo: Assolutamente sì. I problemi esistevano anche prima, la pandemia non ha fatto altro che farli venire a galla e questo ci ha dato modo di lavorare per una ripartenza diversa affiliandoci a KeepOn Live. Il primo obiettivo è quello di arrivare al riconoscimento valoriale e ministeriale della categoria dei Live Club come luoghi della cultura; sale spettacolo per la musica contemporanea dal vivo con pari dignità di cinema e teatri, come già avviene in altri paesi europei, permettendo di accedere ad agevolazioni e misure di sostegno, tramite l’istituzione di un fondo e categoria ad hoc, nonché derivare questo riconoscimento a livello regionale.
Alessandro: Diciamo che già prima della pandemia la nostra realtà era costretta a confrontarsi con una situazione fatta di disinteresse istituzionale, normative inapplicabili, incertezza lavorativa, eccesso di rischio di impresa, iniquità di certi balzelli, ma che, contando sugli sforzi dei singoli, aveva una sua – traballante – sostenibilità. Il Covid ha semplicemente azzerato la possibilità di fare i conti, seppur con grande difficoltà, con tutto questo. Se non altro adesso ci appaiano più chiari i fronti su cui aprire da una parte un confronto con le istituzioni, e dall’altra una necessaria riflessione interna sul significato del nostro lavoro.
Uno dei problemi, anche in ottica della ripresa, può essere la mancanza di un ricambio generazionale nel pubblico? Al di là degli eventi di alcuni grossi nomi dello spettacolo, i più giovani non danno l’impressione di appassionarsi alla musica live, tantomeno di andare alla scoperta di nuove realtà oltre a quelle strombazzate dai media e da Spotify.
Stefano: Quello che io ho notato è che gran parte della scena è ancora portata avanti dai soliti che vengono a vedere i concerti da sempre. Ora tra figli, lavoro e stanchezza il tempo libero per uscire la sera non è lo stesso di prima, mentre tra i giovani solo pochi si appassionano ad un certo stile di musica. Non hanno tutta questa curiosità nella ricerca di un gruppo, di quello che ha fatto in precedenza o da che cultura musicale proviene. Ora è tutto e subito, oggi mi piaci, domani mi hai già stufato. Credo dipenda dalla velocità di informazione che arriva alla generazione social: si cerca sempre di consumare fino allo sfinimento un tormentone per poi cercarne un altro subito dopo, e questo porta alla distruzione delle radici e della storicità di un genere musicale come il nostro. Però seguire questa moda non sta nelle mie corde, quindi non succederà mai neanche questa cosa.
Chris: Non lo so. Sicuramente chi compra i dischi e chi frequenta i concerti nei club è soprattutto un pubblico adulto, però è anche vero che su certi “grandi eventi” in luoghi tipo i palazzetti con artisti mainstream, il pubblico più giovane non manca. Certamente si è persa la cultura del Club e l’idea di Underground.
Teo: Ci auguriamo che non sarà così. Il Bloom ha da sempre promosso musica che ora non è molto in voga nei giovani, ma dal mio punto di vista questo non è un problema. Si parla sempre di questo cambio generazionale che non c’è stato. In quest’anno di pandemia noi abbiamo creato un gruppo di giovani che si sono presi la briga di organizzare incontri per includere altri giovani portando nelle riunioni di produzione nuove idee e stimoli, quindi i ragazzi ci sono, eccome se ci sono! Il problema è che ormai è diventato tutto a prova di click: se una volta dovevi uscire e andare a vedere i concerti per scoprire qualcosa di nuovo, ora i ragazzini scoprono i nuovi artisti su Spotify e su TikTok, ma l’esperienza di un concerto non potrà mai sostituire l’esperienza di ascoltare musica da casa o dai propri smartphone. Sono convinto che quando si potrà tornare a fare le cose che si facevano nella nostra vita precedente ci sarà un lungo periodo di movimento: la gente ha voglia di uscire di casa e di andare ad ascoltare la musica.
Alessandro: Come per il resto, era una deriva già intrapresa da tempo, riconducibile in parte a quanto evidenziato in precedenza ma – crediamo – legato principalmente all’assenza di una politica capace di investire nella formazione dei ragazzi. Chiaro che, delegando questo ruolo alle poche realtà che ancora avevano il coraggio o l’incoscienza di proporre cultura assumendosene singolarmente la responsabilità (e che oggi non hanno nemmeno la possibilità di farlo), si lascia campo libero all’industria che persegue – come è anche giusto che sia – esclusivamente il profitto. E questo vale non solo per la musica purtroppo.
Dai social emerge un grande supporto “a parole” nei confronti dei live club e di tutti coloro che letteralmente campano di musica. Cosa vi aspettate in termini di supporto concreto, oltre ovviamente al sold-out di ogni serata quando (speriamo presto) arriverà il momento di ripartire?
Stefano: Sui social ormai si legge di tutto, e anche il contrario di tutto. Non mi appassiona, non mi piace, non è il mio modo di vivere la socialità, le persone e la vita. Non mi ci ritrovo. Io sono molto a favore dell’aiuto tecnologico nella vita di tutti i giorni, ma non a patto che la sostituisca. In questo periodo ho letto via Facebook tante cattiverie gratuite nei confronti di locali, pub e ristoranti che mi hanno fatto venire il voltastomaco, anche da parte di gente che li ha sempre frequentati. Per fortuna non tutti sono stati “contagiati” dal social: sono riuscito a rimanere in contatto con gente propositiva e che si è resa disponibile ad offrire il proprio supporto appena si potrà riprendere a lavorare. Alcuni mi hanno pure proposto aiuti economici, ma noi preferiamo la presenza ad un freddo invio di denaro su PayPal incitato da una campagna crowdfunding. Non giudico chi lo ha fatto, ma noi non ce la sentiamo di chiedere soldi quando non sappiamo nemmeno se riapriremo o no. Credo sia più sensato ricorrervi una volta riaperto, quando avrai la sicurezza che il tuo posto è sopravvissuto. Magari sarai pieno di debiti, ma almeno lavori e vivi.
Chris: Io prima di tutto vorrei aspettarmi quei ristori che sono stati promessi per queste attività ormai chiuse da oltre un anno, ma che ad oggi non sono mai arrivati. Vorrei aspettarmi la riduzione dell’Iva sugli Spettacoli al 10% e, finalmente, il ricalcolo delle capienze (che in Italia è fortemente limitante) come avviene in ogni paese civile.
Teo: Se oggi siamo qui a raccontarvi la nostra esperienza è perché siamo ancora vivi, e se lo siamo è anche e soprattutto grazie al nostro pubblico, agli amici e agli affezionati del Bloom che ci hanno sostenuto quest’anno. Il nostro pubblico ha reagito molto bene alle varie iniziative che abbiamo messo in piedi, supportandoci in tutto e per tutto, dall’acquisto sul nostro shop fino a donazioni in campagne crowdfunding. Questo per noi è un grandissimo stimolo ad andare avanti, perché la gente ci ha dimostrato di aver apprezzato i nostri sforzi e perché sappiamo che tutti quanti non vediamo l’ora di tornare tra le nostre mura per ascoltare un concerto, per vedere un film, o anche solo per bere le birrette in compagnia. Noi in primis non vediamo l’ora!
Alessandro: Di sicuro, quando e se si ripartirà, arriverà il momento di “contarsi”. Il pubblico che vedeva nei concerti solo una forma di intrattenimento, un modo diverso di passare una serata, potremmo anche non rivederlo più, ma questo potrebbe portarci a sviluppare un rapporto più profondo con chi sente veramente l’esigenza di condividere la propria urgenza comunicativa, i propri sentimenti e le proprie idee. Perché al di là di tutto continuiamo a credere che la musica sia l’unico linguaggio in grado di parlare direttamente all’anima di chi la sappia ascoltare.