“Listen to the Sounds”. Considerazioni dentro e attorno a Twin Peaks – The Return
Mondi sospesi tra realtà e sogno. L’utilizzo dell’espediente del nastro di Moebius. Sdoppiamenti di personalità. L’eterna lotta tra il bene e il male.
L’inconfondibile stile visionario di David Lynch è indissolubilmente legato al suo personalissimo utilizzo di suoni e musica che, in un percorso lungo oltre quarant’anni, ha dato un nuovo senso non solo al nostro modo di “vedere” un film, ma, soprattutto, al nostro modo di “ascoltarlo”.
La musica dà forma alla visione cinematografica lynchiana andando ben oltre il semplice connubio tra canzoni e immagini. Non possiamo quindi parlare di colonne sonore, piuttosto di “paesaggi sonori” che danno un senso là dove l’occhio smette di comprendere. La musica non è semplicemente un accompagnamento, ma qualcosa che ci cala in profondità nell’impianto narrativo, rivelandone temi, caratterizzando personaggi e guidando il nostro subconscio verso la verità.
Un passo indietro…
Fin dagli inizi della sua carriera, le sperimentazioni visive del regista sono sempre andate di pari passo con quelle sonore. Basti pensare al film di debutto, “Eraserhead” del 1977 (tra l’altro, è nelle sale cinematografiche in versione restaurata proprio in questi giorni): Lynch lavorò per oltre un anno con il sound-engineer Alan Splet, dando vita ad elementi proto-noise caratterizzati da suoni ambient oscuri, sibili statici, echi distorti ed inquietanti, e scrivendo il testo dell’indimenticabile “In Heaven”, interpretata dalla “Lady in the radiator”.
Ed è proprio questo il primo esempio di una scena ricorrente nel cinema lynchiano: donne apparentemente tormentate, tra i tendaggi di un palco, che cantano brani estremamente tristi e allo stesso tempo sensuali, portando quasi sempre a un evento inaspettato nel percorso del protagonista. Tra gli esempi più famosi possiamo citare l’interpretazione del brano “Blue Velvet” di Isabella Rossellini nell’omonimo film, “Llorando” di Rebekah del Rio in “Mullholand Drive” o l’eterea “Falling” di Julee Cruise in Twin Peaks. La musica, del resto, è ovunque, basti pensare a Fred Madison, jazzista protagonista di “Strade Perdute” (1997). Ed è lo stesso film-maker ad aver dichiarato che i suoi lavori sono 50 percent visual and 50 percent sound, aggiungendo che sometimes sound even overplays the visual.
Date queste premesse, non è certo un caso se la prima frase pronunciata in Twin Peaks: The Return, dopo 25 anni di hiatus e infinite congetture da parte dei fan, sia stata listen to the Sounds.
È il Gigante a parlare, seduto accanto al nostro Agente Cooper, in quello che sembra essere un angolo della Loggia Bianca. La creatura soprannaturale, vero e proprio aiutante dell’eroe di questa storia, indica un grammofono dal quale escono suoni indecifrabili. È un consiglio utile non solo per Cooper, ma per gli spettatori, i quali, lottando per trovare un significato a ciò che è successo in queste diciotto ore di revival, devono dare ascolto all’invito a prestare attenzione a quella che è la componente audio dello show. Ciò che ci interessa qui non è però consegnare una chiave interpretativa della serie o analizzarla dal punto di vista semiotico, quanto capire in che modo i suoni e la musica sono stati utilizzati per fornire al pubblico un elemento di comprensione dell’insieme. Ma prima dobbiamo fare un passo indietro.
In principio fu Angelo Badalamenti
Il carattere leggendario di Twin Peaks è dovuto anche all’indimenticabile colonna sonora creata da Lynch e dal Maestro di origini italiane: un “soundscape” caratterizzato da synth addolorati e pulsanti e da influenze che strizzano l’occhio al jazz, al boogie, all’ambient e ai ritmi ipnotici dell’industrial rock.
Non è iperbolico affermare che Twin Peaks ha creato un vero e proprio genere, considerando i numerosi artisti che da quasi tre decenni ne parlano come di un’influenza. Basti pensare allo straordinario numero di sample utilizzati nei brani di Beach House, Chromatics, Moby, Mount Eerie, oltre che all’album di cover degli Xiu Xiu. In realtà si dice che il tutto abbia avuto inizio più per un’esigenza che per un’intuizione dei due autori: Lynch era innamorato della cover di “Song To The Siren” di Tim Buckley eseguita dai This Mortal Coil, “super gruppo” a formazione aperta dalle tinte gothic pop, creato da Ivo Watts-Russell, fondatore della 4AD e unico membro ufficiale insieme a John Fryer. Questa versione del brano, che alla voce vedeva Liz Fraser dei Cocteau Twins, era in realtà molto di più di una semplice cover: le sue atmosfere sognanti la rendevano una sorta di lamento esistenziale intensamente sensuale. Lynch la voleva utilizzare per “Blue Velvet”, ma – essendo i diritti troppo costosi – aveva chiesto a Badalamenti di creare qualcosa di simile.
Il risultato? “Mysteries Of Love”, interpretata da Julee Cruise. Possiamo quindi parlare di una sorta di imitazione di una cover, di qualcosa che duplica pur diventando diverso, un tema centrale in Twin Peaks. “Mysteries Of Love”, infatti, diverrà un vero e proprio trademark musicale all’interno della serie: una cantante femminile che sussurra dolcemente tra sintetizzatori cigolanti ed eterei.
Due sono gli album pubblicati da Badalamenti, Lynch e Cruise, uno poco prima della premiere di Twin Peaks e uno appena dopo la fine, e molte di quelle canzoni sono apparse nello show stesso, più volte utilizzate come “reminder” a fine episodio per portare alla luce nuovi dettagli della storia, o meglio per lavorare sul subconscio dello spettatore tramite l’utilizzo di espedienti sonori e frasi astratte e minacciose. Significativa, in questo senso, è la scena del bar in “Fire Walks With Me”, il film realizzato dal regista successivamente alla messa in onda della serie, alla quale fa da prequel: mentre Julee Cruise sussurra was it me? Was it you?, una Laura Palmer disperata, costretta a convivere coi suoi demoni (cioè col contrasto tra Laura buona/cattiva), scoppia a piangere, accettando di dover morire.
Non solo: Badalamenti aveva creato dei veri e propri “themes” per ognuno dei personaggi. Basti pensare a “Audrey’s Dance” che, insieme ad “Audrey’s Prey” e “Audrey”, accompagna ogni apparizione della ragazza, così come il pezzo delle venature jazz che corrisponde all’agente Cooper e al cupo e malinconico brano che viene utilizzato ogni volta fa riferimento a Laura. Ovviamente la nuova serie li riprende, ma in qualche modo assistiamo a un cambio di paradigma. Gli elementi da analizzare a tal proposito sono quattro: l’utilizzo dei vecchi temi scritti da Badalamenti, le performance della band alla Roadhouse, l’utilizzo dei suoni e il silenzio.
La musica di Badalamenti
Quei sottofondi che ben conosciamo ci sono anche in The Return, ma il loro ruolo è drasticamente mutato. Un indizio ci viene fornito già dalla sigla: il main title rimane lo stesso ma è rallentato, come a volerci trasportare nella dimensione del sogno, dove il tempo assume nuove forme. Inoltre, poco prima che le note prendano corpo, si sente un rumore cupo e minaccioso, una sorta di sussurro. Le stesse immagini, poi, sono diverse dalla versione originale: la cittadina di Twin Peaks non ne è più la protagonista, come se gli autori ci volessero dire che non c’è più nulla di ciò che ricordavamo perché l’azione è stata spostata all’interno della Loggia, come dimostrano i tendaggi rossi che diventano il nuovo centro di questa introduzione.
Chi ha visto la serie saprà che la trama in questa terza parte è quasi del tutto sviluppata all’esterno della città e che i personaggi-chiave sono scomparsi o bloccati in altri corpi e dimensioni. L’espediente sonoro che viene quindi utilizzato gioca ancora una volta sul subconscio dello spettatore, riprendendo quei “themes” di cui ho appena scritto.
Tre sono gli esempi più notevoli: il tema di Laura, abusato nelle prime due stagioni, rimane totalmente silente fino alla fine del terzo episodio quando l’ex fidanzato Bobby Briggs vede l’iconica fotografia di Laura reginetta del ballo e inizia a piangere, mentre le note hanno il sopravvento, imponendosi sopra i dialoghi.
Un secondo momento importante è il primo caffè di Dougie Jones, il corpo all’interno del quale risiede lo spirito del vero Agente Cooper: il personaggio, quasi del tutto catatonico e incapace di esprimersi, fa ritorno alla famiglia del corpo-involucro in una situazione a dir poco grottesca; dopo una lunga serie di immagini che ritraggono la preparazione della colazione con in sottofondo la celebre “Take Five” di Dave Brubeck, il protagonista beve un caffè, la “bevanda magica” del nostro eroe, pronunciando la sua prima parola e facendo credere allo spettatore che Cooper sia tornato (anche se così non è). La scelta di questo pezzo è estremamente indicativa in quanto richiama il sound jazz che contraddistingueva le apparizioni dell’Agente dell’FBI, ricordandoci che però sulla scena non è il vero lui. Da questo momento un sottofondo ispirato al brano di Brubeck accompagnerà tutte le apparizioni di Dougie-Cooper.
Il terzo momento è il bellissimo e commovente ritorno alla Roadhouse di Audrey: sedici episodi dopo l’inizio della serie e a due ore dalla conclusione ascoltiamo nuovamente quel leitmotiv sensuale e sognante che ci riporta lì dove tutto era iniziato. Il regista è abile in questo: quando la nostalgia prende il sopravvento, cullandoci, la verità si fa incubo.
Questo uso per l’appunto “nostalgico” della colonna sonora ideata da Badalamenti è qualcosa di dolorante ed estemporaneo, che agisce sui sentimenti del pubblico, attirando l’attenzione sul passare del tempo e sui cambiamenti del mondo intorno a questi personaggi.
La Roadhouse
Nella serie originale la Roadhouse funzionava da luogo di ritrovo e perdizione, ma aveva anche una componente sociale per il piccolo mondo della città: al suo interno, ad esempio, che veniva organizzato il concorso di Miss Twin Peaks, nel quale erano protagonisti tutti gli abitanti, non solo quelli coinvolti nelle attività più losche. Qui apparivano alcuni personaggi magici come il Gigante, si risolvevano parte dei misteri e si spiegavano dei segreti. In The Return la sua funzione rimane la stessa, ma qualcosa al suo interno è ancora più corrotto. I personaggi che incontriamo sono criminali, perdenti e tossicodipendenti, che riflettono una comunità che è scivolata inesorabilmente nei meandri della perversione da quando Evil Cooper è uscito dai suoi boschi venticinque anni prima. Anche nella Roadhouse si sviluppa il discorso sul doppio: il posto è lo stesso, ma è diverso. Un altro Renault, Jean-Michel, è coinvolto in attività illecite. Un’altra giovane donna, Becky, è vicina a un tossicodipendente, Steven, così come era successo a Laura e Bobby. La nuova generazione di Twin Peaks è marcia, come dimostrano i denti in decomposizione di Sky Ferreira; è violenta, come dimostra il personaggio di Richard Horne. In sottofondo a tutto questo troviamo le band che di esibiscono alla Roadhouse: dai Chromatics ai Nine Inch Nails, da Eddie Vedder alle Au Revoir Simone.
Ma qual è il ruolo di questi live?
Il ruolo delle band che salgono sul palco della Roadhouse può essere assimilato a quello del coro nelle tragedie greche, nelle quali – come un unico personaggio rappresentante la collettività – riassumeva o commentava la vicenda, dialogando spesso direttamente col protagonista. Non è un caso che le esibizioni non siano “interne” all’episodio ma ne sanciscano, ogni volta, il finale. Questo espediente è stato utilizzato da Lynch non solo per suddividere in diciotto parti una produzione che era stata pensata per durare altrettante ore, ma anche per creare un nuovo punto di contatto tra la serie e lo spettatore: siamo noi infatti, in questo momento, i protagonisti del sogno ed è quindi a noi che il coro si rivolge per meglio spiegarci ciò che abbiamo visto.
Non illustrerò nel dettaglio ognuna delle performance della Roadhouse. Lascio a voi il compito di analizzare il testo o il video del brano presentato dalle band per trovare i collegamenti con Twin Peaks. Mi limiterò ad elencare quelle per me più rilevanti.
Il secondo episodio si conclude con “Shadow” dei Chromatics (che agli ascoltatori più fini ricorderà terribilmente “Wish Fulfillment” dei Sonic Youth).
Il testo è questo:
Shadow, take me down
Shadow, take me down with you
At night I’m driving in your car
Pretending that we’ll leave this town
We’re watching all the street lights fade
And now you’re just a stranger’s dream
I took your picture from the frame
And now you’re nothing like you seem
Your shadow fell like last night’s rain
Abbiamo dunque la dimensione del sogno, filo conduttore di tutta la serie, e lo “stranger” potrebbe essere il Doppelgänger di Cooper. Soprattutto, però, è in questa puntata che viene spiegato all’agente dell’FBI come tornare nel mondo reale: deve trovare BOB e farlo rientrare nella Loggia Nera al suo posto. Nel mentre, Hawk si aggira per i boschi cercando l’ingresso a quest’ultima. Ed è proprio a Hawk che si fa riferimento in questo pezzo: l’agente della polizia, infatti, aveva descritto la Loggia Nera come the shadow-self of the White Lodge. The legend says that every spirit must pass through there on the way to perfection. There, you will meet your own shadow self. My people call it ‘The Dweller on the Threshold’ […] But it is said, if you confront the Black Lodge with imperfect courage, it will utterly annihilate your soul.
Il finale del sesto capitolo è lasciato all’interpretazione di “Tarifa” di Sharon Van Etten. Il testo della canzone si apre con la frase hit the ground, ed è proprio una scena grottesca, in cui un bambino viene investito da Richard Horne e quindi scaraventato al suolo, il fulcro dell’episodio.
Van Etten, prima della fine della canzone, sussurra send in the owl, che, per chi conosce Twin Peaks, ha un significato legato agli spiriti che popolano la Loggia Nera. Tra l’altro, il palo della luce identificato dal numero 6 vibra 3 volte successivamente alla morte del bambino, rivelando il numero 666.
L’episodio otto si conclude coi Nine Inch Nails. Nessun brano in The Return ha tanti riferimenti involontari a Twin Peaks quanto questo (il disco che lo contiene è uscito nel 2016, ma le numerose collaborazione tra Trent Reznor e Lynch possono far pensare a qualcosa di pianificato). “She’s Gone” è una possente marcia ferale, nera come la pece. Quest’ottava tappa della terza stagione è forse la più complicata e allo stesso tempo quella visivamente più eccitante di tutte. In una lunghissima sequenza priva di dialoghi viene mostrata l’origine del male, personificato da Bob, in contrapposizione all’immagine evocativa del bene, cioè Laura, che viene inviata sulla terra all’interno di una sfera dorata dalle creature che abitano la Loggia Bianca. Non solo: la scena si sposta nel 1956 e vede protagonista una ragazzina alle prese col suo primo bacio con in sottofondo “My Prayer” dei Platters. È interessante notare come la prima frase della canzone dica no songbirds are singing (ma noi lo sappiamo che where we’re from the birds sing a song and there’s always music in the air). La scena si conclude con la giovane che si sviene dopo aver ascoltato Il Male parlare alla radio mentre una creatura entra nella sua bocca.
Il testo dei Nine Inch Nails sembra quindi tagliato apposta sulla macabra storia appena raccontata:
She’s gone, she’s gone, she’s gone away
A little mouth opened up inside
Yeah, I was watching on the day she died
L’importanza di suoni e rumori
Torniamo al punto di partenza: listen to the sounds, dice il gigante.
E i suoni, in questa stagione, hanno avuto un ruolo determinante, come dimostra anche la pubblicazione del disco “Anthology Resource Vol.1” che raccoglie quanto realizzato dal compositore e sound designer Dean Hurley.
Negli ultimi 12 anni Hurley ha lavorato presso l’Asymmetrical Studio di David Lynch, dando vita a numerosi progetti cinematografici, pubblicitari e musicali, come le collaborazioni con Lykke Li, Zola Jesus e Dirty Beaches. Ha inoltre scritto e prodotto con il regista i suoi quattro ep: The Air Is On Fire (2007), This Train (2011), Crazy Clown Time (2011) e The Big Dream (2013).
Il sound design è diventato così parte integrale nell’esperienza visiva lynchiana che guardare un suo film senza alzare al massimo il volume è come pensare di guardarlo senza aprire gli occhi. Il suono fornisce profondità, fornisce, come ho detto all’inizio, un ulteriore livello di interpretazione e a volte ne è l’unico possibile.
Per capirne l’importanza dobbiamo capire quanto è rilevante il personaggio di Gordon Cole, interpretato dal regista stesso. Se nelle due serie precedenti resta una figura “marginale”, nella terza diventa quasi il protagonista. È in alcuni dei suoi dialoghi, infatti, che vengono fornite le più importanti chiavi di lettura dell’intero universo twinpeaksiano.
Nell’episodio quattordici Gordon/David dice I had another Monica Bellucci dream last night. In questo sogno l’attrice interpreta se stessa e dice we are like the dreamer who dreams, and then lives inside the dream. But who is the dreamer? (torna insomma ancora una volta la visione onirica, sempre cardinale). E se è vero che questo personaggio acquisisce centralità, non sorprende che i rumori che sentiamo siano quelli filtrati dall’apparecchio acustico che lo contraddistingue: sono tutti suoni meccanici, ronzii, sirene lontane, sibili e minimalismi drone. Anche i titoli delle tracce del disco pubblicato da Sacred Bones sono evocativi: ce ne sono ben due che fanno riferimento all’elettricità, altro discorso ricorrente in questa terza stagione. Se non ci fossero stati questi suoni, molti dei messaggi racchiusi nel racconto sarebbero rimasti nascosti. Potete quindi pensarli come il tessuto connettivo di Twin Peaks, un ponte che collega tutta la sua diegesi musicale.
Il silenzio
Un ultimo aspetto che dobbiamo prendere in considerazione è il silenzio. Solo nel primo episodio ci sono oltre sette minuti di totale assenza di dialoghi e rumori. C’è silenzio quando Cooper riesce a uscire dalla Loggia. C’è silenzio quando vengono presentati nuovi personaggi, assolutamente marginali. Il silenzio è sempre stato un carattere distintivo dell’universo lynchiano, ma nei primi episodi del nuovo ciclo assume una connotazione ancora più simbolica se messo in antitesi con uno dei suoi momenti più brutali: l’esplosione della prima vera bomba atomica il 16 luglio 1945, descritta come il fenomeno che ha scatenato l’origine del male. E se è vero che dopo un’esplosione di questo tipo il silenzio è assordante, in realtà Lynch sceglie di utilizzare “Threnody For The Victims Of Hiroshima” di Krzysztof Penderecki come sottofondo. Un canto funebre di violini stridenti, un omaggio a Stanley Kubrick che lo aveva già utilizzato nel suo “Shining”. La trenodia è perfetta perché sintetizza a livello puramente sonoro l’urlo disperato del mondo che si squarcia in un istante che diviene eterno. L’uso di una composizione contraddistinta da dissonanze che sembrano le voci di mille lamenti strazianti è esemplare, perché non è niente di più che una musica che rappresenta l’orrore, un orrore che investe con violenza non solo le persone ma anche l’ambiente, che si disintegra.
Quando si parla di David Lynch è difficile dare spiegazioni “oggettive”: il suo carattere distintivo sta proprio nella miriade di letture possibili delle sue opere. Sicuramente Twin Peaks ha cambiato le regole del gioco nel mondo del piccolo schermo, ribaltandole, dopo averle plasmate oltre venticinque anni fa. Non ci sono “happy ending” e non c’è più certezza riguardo lo schema interpretativo della trama, ma ci troviamo piuttosto in un loop di eventi che si appoggiano su considerazioni meta-narrative, distruggendo completamente la concezione del tempo. Per tutta la durata dello show la musica e i suoni hanno arricchito questi momenti di perplessità, violenza e malinconia, lavorando sull’emotività dello spettatore per renderlo il vero protagonista, il vero sognatore di questo universo (o multi-verso). Ciò che possiamo fare è abbandonarci completamente alle creazioni del regista, lasciando che ci travolgano. Solo così potremo affermare con certezza “We live in a dream”.