LILI REFRAIN, Mana
Chi come me segue da sempre il percorso di Lili Refrain e ha avuto molteplici occasioni di vederla in azione dal vivo, può provare un iniziale senso di smarrimento di fronte a Mana. Il motivo è presto detto: l’indole umana cerca sempre punti di riferimento e metri di paragone, in pratica appigli che rendano più sicuro e confortevole l’incontro con una nuova esperienza. Diciamo subito che Mana nasce con il preciso intento di uscire da questa comfort zone e di palesarsi come una sfida senza rete in primis per la stessa Lili Refrain, decisa a non offrire ai suoi ascoltatori un Kawax 2, cosa che lancia in automatico una sfida altrettanto importante al fan di vecchia data, qualora si credesse ormai custode dei più reconditi segreti della musicista. Detta così potrebbe sembrare ci sia di che preoccuparsi o addirittura gridare allo scandalo e, anche qui, vale subito la pena svelare che in realtà Mana è in tutto e per tutto frutto di Lili Refrain, solo che lo è di una persona a tutto tondo nelle sue luci e non solo nelle sue ombre, nelle sue nuove forme espressive (synth, percussioni…) e non solo nelle fedeli chitarre e loop station. Anche la voce ha acquistato più sfumature, ha provato nuove vie espressive e ha deciso di mettersi in gioco in forme spesso inaspettate tra Medio ed Estremo Oriente, lirica e throat singing. Eppure tutto questo più alla fine suona come un meno, nel senso che finisce rendere il tutto meno carico e sovrabbondante, meno intricato e vorticoso, per offrire l’idea di un approccio quasi leggero nelle forme (non certo nei modi e nella sostanza). È un viaggio che, attraverso luoghi differenti e panorami a tratti inattesi, porta l’ascoltatore da un punto di partenza ad un punto di arrivo che non era possibile intuire prima di aver effettuato almeno una volta tutto il percorso. E qui torniamo all’apertura di questa recensione, cioè all’iniziale smarrimento di chi si aspettava di sapere tutto e di poter descrivere quasi prima che le dita si muovessero dove sarebbero andate a pizzicare le corde. Del resto qui di corde ce ne sono poche e spesso sono sostituite da synth e percussioni, dal regale taiko e da una voce che – restando sempre uno strumento – va a giocare libera con basi dallo spettro sonoro più ampio e completo. Sfida cercata e, in qualche modo, necessaria per non incappare nella trappola della ripetitività e del reiterare una formula ormai rodata in studio e su strada, ma pur sempre una sfida che in molti preferiscono non cercare o comunque rimandare per quanto più a lungo possibile. Da ascoltatori non possiamo che apprezzare e goderci un disco che, come sottolineato, è all’orecchio molto meno sovraccarico e labirintico dei precedenti, seppure sotto la superficie i mostri continuino a nuotare e le ombre siano sempre lì ad attenderci. Un viaggio che svela nuovi particolari ad ogni ascolto e riesce a conquistare via via che ci si lascia andare, trasportati dalla corrente.