Lili Refrain: di viaggiatori, mostri marini e arti marziali
Mana è il quinto disco di Lili Refrain. Cosa ancora più importante è un lavoro in grado di rimescolare completamente le carte in tavola con uno spostamento radicale di equilibri ormai consolidati. Per questo era doveroso tentare di comprendere le ragioni di una simile scelta e farsi raccontare dalla viva voce di Lili Refrain cosa si celasse all’interno di questo viaggio sonoro così ricco di novità e sfide senza rete.
Ciao, iniziamo a parlare del nuovo disco Mana, un lavoro decisamente coraggioso e abbastanza differente dai precedenti. Anche a livello di strumenti, visto che la chitarra non è più la sola protagonista.
Lili Refrain: Direi molto diverso dal solito più che abbastanza, di sicuro differente da qualsiasi cosa abbia realizzato finora, tanto che in pratica le parti di chitarra sono solo un paio. Quella di non usarla per il resto del disco è stata una scelta consapevole perché ero ormai entrata in un’impasse: dopo anni le mani si muovevano da sole sulla tastiera, il che per me era diventato un limite gigantesco che rischiava di portarmi a ripetere sempre la stessa cosa. Così ho dovuto decidere se decostruire del tutto il mio modo di suonare la chitarra o non suonarla e provare a vedere cosa succedeva con un altro tipo di strumentazione. La chitarra però appare su “Eikyou” insieme ai taiko della scuola di Rita Superbi.
Magari non tutti sanno cosa è un taiko, quindi cominciamo a presentare i nuovi protagonisti del disco…
Il taiko è uno strumento che sto ormai studiando da più di due anni: questo enorme tamburo unisce il suonare e le arti marziali. Finora dal vivo usavo un timpano, mentre per questo tour arriverà un vero taiko che mi farò recapitare in tempo per il Roadburn e poi mi seguirà per il resto delle date. Rappresenta un modo di suonare completamente differente perché anche dal punto di vista fisico è come praticare una vera arte marziale, solo non indirizzandola verso una persona, ma applicandola ad un tamburo. È uno strumento che mi ha aperto un universo completamente nuovo. Avevo sempre adorato le percussioni ma non le avevo mai suonate e, quando sul palco sentivo l’esigenza di uno strumento percussivo, dovevo utilizzare le mani sul microfono o sui pick up della chitarra, ma mi mancava comunque avere un elemento ritmico con frequenze basse. Per questo mi sono esaltata all’idea di avere un vero e proprio elemento percussivo come il battito cardiaco e delle frequenze basse. Questo è il motivo per cui ho introdotto i taiko, i synth e le percussioni in generale, oltre ad utilizzare in modo differente delle voci. Sono questi gli elementi fissi che volevo accanto a me per esplorare nuove frequenze, dato che con il solo utilizzo di chitarra e voce finivo per indagare solo quelle medio-alte.
Hai degli ospiti sul disco o hai fatto tutto da sola?
In pratica ho fatto tutto da sola a parte “Eikyou”, in cui suonano i taiko Rita Superbi e la sua scuola (la stessa che frequento io). Lei è andata in Giappone negli anni Ottanta per studiare con gli Ondekoza ed è stata la prima persona a portare il taiko in Italia, in un momento in cui nessuno sapeva cosa fosse. Scoprire che esiste un’arte marziale che comprende la musica è stato trovare qualcosa che racchiude le mie passioni più grandi in un’unica disciplina. Per il resto non ci sono altri ospiti, ho fatto tutto in solitaria.
Anche a livello di scrittura ho trovato una enorme differenza con il passato. Non è immediato ritrovare la Lili Refrain che conoscevamo dentro a questo album, almeno finché non si assimila l’approccio differente. Ho trovato molte novità che portano ad un lavoro in qualche modo più complesso.
Come ti dicevo, l’idea era proprio quella dell’esplorare, dello scavare tutte le possibilità che mi si prospettavano a partire da queste novità. In fondo Mana è il mio quinto disco e, invece di farne un punto di arrivo ho preferito diventasse un nuovo inizio. Quello che ho fatto finora portava a Mana, a diventare altro, senza per questo rinunciare alla loop-station, perché c’è sempre, anzi ce ne sono tre collegate ciascuna ad uno strumento diverso. È tutto più complesso ma paradossalmente anche più semplice, perché se devo darti la mia impressione trovo più complesso un disco come 9 che a livello compositivo e strutturale è molto più difficile, quasi neoclassico o barocco, mentre ora non sento questa sovrabbondanza. Oggi c’è un altro modo di fare le cose, che, se da una parte appare più semplice, dall’altra nell’insieme è più ricco e ha meno limiti. Quando parti a comporre da un unico strumento e facendo largo uso di ripetizioni, devi sempre stare attento a non annoiare, quindi finora il mio modo di comporre era di riempire e occupare tutti gli spazi vuoti creando una sorta di stratificazione satura con la continua ricerca del contrappunto, del canone e del riff di risposta, visto che tutto si riferiva ad un unico strumento. Ora, invece, posso creare dei brani che mi permettono di essere più libera soprattutto a livello vocale, perché sotto ho uno strato più solido e meno invasivo, anche dal punto di vista delle frequenze che non assomigliano per nulla a quelle della voce. Così l’orchestrazione appare più completa e fa sembrare tutto più semplice, anche se enormemente più complesso da gestire. Insomma, mi sono complicata la vita.
La cosa che più mi ha stupito nel disco è la voce, che è molto più varia e utilizzata in modi differenti a seconda dei brani…
Concordo, ho cercato di utilizzare tanti registri differenti, ho voluto sperimentare anche da questo punto di vista e non c’è neanche un brano strumentale. Naturalmente uso sempre la voce come uno strumento, a parte un brano dove compare una frase semantica in forma di citazione. Il pezzo si chiama “Travellers” e parla di viaggio e nello specifico di quello che affronti quando non vorresti lasciare la tua terra ma sei costretto a farlo senza sapere quale sarà la meta e cosa ti aspetta. Ma parla anche di chi viaggia come condizione di vita, non tanto come l’andarsene a fare una vacanza. In questo caso ho voluto citare il brano di Jeff Alexander “Come Wander With Me” dove canta: “vieni a vagare con me, amore. Vieni a vagare con me, lontano da questo triste mondo, vieni a vagare con me, lui è venuto dal tramonto, veniva dal mare, è venuto dal mio dolore e può amare solo me”. In realtà, io ho cambiato il seguito in “io venivo dal tramonto, lui veniva dal mare, è venuto dal mio dolore e può solo amare” proprio perché secondo me in questo preciso momento storico e sociale l’unica cosa che può permetterci di contrastare l’odio è l’amore, anche se so che passerò per una romantica per aver voluto connotare questo brano con una simile citazione.
Se ULU era già un disco differente ma comunque riconducibile al tuo percorso, qui il primo ascolto è spiazzante perché non si ha ancora la visione di insieme che ti aiuta ad unire i puntini e riannodare il tutto. Detta diversamente, il primo ascolto ti toglie la sedia di sotto perché mancano i punti di riferimento che ci si aspettava di trovare. Eppure a fine corsa, secondo me, il tutto acquista un suo senso.
Non è un caso se il disco si chiama Mana e, per la prima volta ogni titolo dei pezzi ha un suo significato, sebbene poi nel cantare non usi termini di senso compiuto. Mana è una parola di origine polinesiana utilizzata anche nella cultura hawaiana e nel suo significato più immediato è traducibile come energia vitale ma anche come forza che viene dall’interno e potere soprannaturale, ha molteplici significati e soprattutto è la condizione energetica che appartiene a qualsiasi essere che vive sulla terra. Da un punto di vista dell’animismo e dello sciamanesimo non è innata, ma può essere incrementata o anche decrescere in base alla capacità di ascoltare ed entrare in connessione con quello che ti circonda e metterlo in correlazione con ciò che hai in te. Questo è un concetto che ho imparato dal praticare il kung fu e le arti marziali, non a caso lo stesso termine kung fu significa duro lavoro e questo lo definisce non solo dal punto di vista fisico ma anche per quello che c’è dietro rispetto alla presa di coscienza della propria energia interiore, del come metterla in equilibrio e di come usarla. Il kung fu in questo senso è una grande scuola e i primi tre titoli dei brani vengono proprio dal quel mondo e dalle arti marziali. Il tema che unisce tutto il disco è l’evoluzione personale che si ha a partire dalla propria storia personale: racconta di come tirarla fuori e incanalarla, di come riuscire ad ascoltare ciò che ci sta intorno anche quando urla disperatamente e di come operare per risanare questa condizione di disagio globale. Parla anche molto del viaggio e dell’uscire dalla propria comfort zone, come è stato per me l’abbandonare le chitarre, così da lasciare ciò che conosci per muoverti verso qualcosa di sconosciuto senza sapere dove il tragitto ti porterà. Dopo aver tirato fuori i mostri che avevo dentro ed elaborato i miei lutti, dopo aver gridato con le chitarre metal e la distorsione, ho scoperto che c’è anche una forma di energia diversa, magari più gentile ma non per questo meno potente. Mi piacerebbe poter restituire tutto quello che ho ricevuto offrendo a chi ascolta il disco un po’ di Mana.
Quando pensavi al viaggio di cui parli nel disco, pensavi già quello non da poco che stai per intraprendere tra tour e vari festival? Ti va di darci qualche anticipazione delle prossime uscite dal vivo?
Assolutamente non ci pensavo, ma neanche minimamente. Partirò, infatti, con The Devil’s Trade e Forndom dalla Polonia per arrivare al Roadburn anche se in realtà ci divideremo in Francia, dove andrò a recuperare il taiko per poi riunirci in Olanda dove presenterò il disco al completo. E ci sarà l’Hellfest che è davvero un qualcosa di nuovo e incredibile per me, suonare insieme a persone con i cui dischi sono cresciuta e che ho sempre ammirato sarà un’esperienza incredibile. Tutto è nato grazie al sodalizio con l’agenzia K2, con cui sono entrata in contatto ai tempi di ULU, una collaborazione che era rimasta forzatamente in sospeso causa pandemia. Per fortuna poi tutto si è concretizzato e ora grazie al loro lavoro siamo arrivati a questi traguardi. Tra l’altro per me i contatti umani che si creano durante i concerti sono fondamentali, mi danno una carica enorme e rappresentano il motivo per cui suono dal vivo. Ad ottobre ho suonato al Desertfest a Ghent (Belgio) in un posto enorme e con gruppi incredibili e anche lì ho cominciato il mio set partendo dal fonico e passando attraverso le persone con cui ho anche parlato tra un brano e l’altro, un approccio che è stata molto gradito, perché annulla la differenza tra musicista e pubblico creando uno scambio, lo stesso che alla fine ci ha portato a far festa fino alle quattro di notte.
Non hai un po’ di paura a portare un disco così differente dal vivo?
In realtà alcuni brani li ho già proposti dal vivo come “Mami Wata” che ho riarrangiato con la chitarra, “Ichor”, “Sangoma” o anche “Travellers”, che mi diverte moltissimo. Parte di Mana, in realtà, è proprio nato in sede live per poi finire su disco, mentre altri pezzi sono nati al momento di registrare e ora li sto imparando a suonare dal vivo, anche se detta così fa ridere. Per questo, ho già avuto modo di testare la reazione del pubblico e devo dire che al momento è stata davvero positiva, anche perché spero che il mio stile evocativo e basato sulla ritualità sia rimasto anche se presentato in modo differente, per me più ricco e completo. In realtà, se dopo quindici anni avessi continuato a ripetere la stessa cosa, avrebbe voluto dire essermi fermata. Considera che prima di registrare ho scartato otto brani, in pratica un album intero, perché suonavano come Kawax 2 la vendetta, per questo li ho messi da parte anche se sono brani bellissimi che probabilmente riprenderò e utilizzerò in futuro magari in forma differente, ma che ora avrebbero rappresentato cose già dette e fatte. Dopo tutto questo tempo è interessante anche rimettersi in gioco senza continuare a ripetere le stesse cose, perché avrebbe poco senso. Il pubblico si è anche ampliato parecchio con questo nuovo set e prende anche persone che di solito ascoltano stili del tutto differenti: ovviamente i fedelissimi del metal ci sono sempre perché comunque il modo di presentare i brani mantiene alto il livello di apocalisse anche con le percussioni, mentre altri che magari prima non apprezzavano troppo i chitarroni ora si avvicinano attratti dalle nuove cose. Non è comunque un lavoro pensato appositamente per questo ma perché avevo proprio voglia di offrire qualcosa di ulteriore oltre alle ombre di cui ho già parlato molto. Vorrei andare controcorrente in questo periodo di ombre e presentare anche qualcosa di luminoso.
Nonostante il suo contenuto musicale sia più luminoso e colorato del solito, l’artwork fa pensare a tutt’altro…
Sì, l’estetica del tutto è monolitica, c’è molto sturm und drang. La copertina è opera di un fotografo straordinario che potremmo definire il Salgado sardo, si chiama Paolo Sanna ma il suo nome d’arte è Anima Mundi e fa delle foto meravigliose con un immaginario molto black metal giocato sul bianco e nero, tanto che ha lavorato anche con gli Amenra. Ha uno sguardo poetico sui particolari e molto narrativo, che è una cosa che adoro per cui le sue foto mi hanno colpito da subito. Soprattutto dopo essere stata in Sardegna e aver apprezzato la sua natura incredibile, a tratti dura, viscerale e ancestrale che non ti regala nulla, ma anche capace di darti qualcosa che nessun altro luogo può offrirti se riesci ad esserne meritevole. Così è nato un dialogo con lui, ci siamo trovati in accordo su ciò che la natura della Sardegna ci ha insegnato e abbiamo deciso di collaborare per Mana. Abbiamo lavorato molto a lungo e, dopo varie vicissitudini che non ti sto a raccontare, un giorno mi ha mandato questa foto che era giocata sulla specularità ottenuta da un unico scatto che mi ha molto colpito, tanto da chiedergli di farmi vedere l’immagine originale. Quando ho visto la foto ho capito che mi piaceva il paesaggio così come era senza ulteriori modifiche o alterazioni, con l’incontro tra acqua e rocce che mi ha ricordato il Mana e “Mami Wata”, che è la regina degli abissi ma anche la dea della lussuria, della femminilità e degli istinti, alla quale le persone che si mettono in viaggio via mare si affidano perché, nel caso dovessero far naufragio, sperano di morire tra le sue braccia. C’è una eterna devozione per questo personaggio femminile potentissimo, mezza donna e mezzo serpente, quindi non una sirena ma un vero mostro marino, che è cosa differente, e viene pregato perché si prenda comunque cura dei naviganti che si mettono in viaggio nella vita e nella morte. Per questo come ho visto quella foto ho deciso che doveva essere l’immagine di copertina con il logo di Mana realizzato da Francesco Russo, storico grafico della Subsound, mentre all’interno del gatefold ho inserito l’immagine di questo paesaggio senza scritte o altro perché risaltasse in tutta la sua potenza. Il logo è stato realizzato con la tecnica detta hotfoil, grazie alla quale una lamina d’oro viene incisa sulla copertina, il risultato ha questo effetto incredibile che non vedo l’ora possiate apprezzare di persona.
Tornando alla musica, cosa mi racconti del lavoro fatto in studio e di come hai costruito il fluire del disco quasi fosse un viaggio attraverso panorami differenti?
La produzione di questo disco secondo me fa sì che sembri la colonna sonora di un film. Stefano Morabito dei 16th Cellar Studio di Roma ha fatto un lavoro enorme anche a livello di progettazione con momenti in cui tra cori, strati di percussioni, synth, oscillatori melodici e ritmici abbiamo utilizzato fino a settantadue tracce. Per questo ora me lo sto studiando per riuscire a suonarlo in sede live. Ovviamente il live sarà differente dal disco per cui ci saranno cose che risulteranno fedeli al suono in studio e altre che verranno riarrangiate appositamente per i concerti. Ad esempio la voce, che solitamente è molto improvvisata, questa volta segue dei temi che saranno rispettati in quanto parte fondamentale della scrittura del brano. ULU è stato di sicuro un momento di passaggio tra Kawax e Mana, ma aveva l’aspetto confortevole dell’essere registrato live in studio e quindi senza lavoro traccia per traccia, perché volevo mantenesse la natura dei brani – nati su di un palco – e ne contenesse tutti gli aspetti compresa la possibilità dell’errore come parte del tutto. Questo nuovo album, invece, conserva quell’anima ma in maniera più disciplinata e non improvvisata, c’è stata una ricerca importante che parte dalle letture di antropologia che ho affrontato nell’ultimo periodo e arriva ad uno sguardo sul momento storico, anche politico. Pensa, ad esempio, al fatto di essere dedicato ai migranti e a chi deve affrontare un viaggio, sebbene il disco sia nato prima della guerra che lo rende ancor più attuale. C’è poi tutto uno studio anche sulle tecniche sonore, sulla voce, le percussioni e gli elementi ritmici che dovevo stratificare senza che diventasse rumore, quindi anche se suona immediato nel suo risultato finale, è stato tutto fuorché immediato nella sua costruzione. Sicuramente è un disco meno intricato rispetto a 9 e Kawax, al cui interno si trova davvero un labirinto in cui perdersi, qui è tutto più emotivo e meno mentale. In Mana ci sono sempre moltissime cose ma distribuite su strumenti differenti per cui si percepisce meno, c’è una struttura orizzontale anziché verticale che fa sì che l’ascoltatore ottenga una percezione differente. Per questo, anche se ci sono più tracce e più complessità, essendo distesa invece di andare in altezza come in un cilindro, si ha un’altra impressione. Mana è un viaggio per mare che procede in modo orizzontale nonostante poi si incontrino gli imprevisti come la tempesta, l’iceberg e via dicendo.
Che cosa abbiamo dimenticato?
Direi di ricordare un attimo chi mi ha aiutato a realizzare Mana, ovverosia Davide Cantone della Subsound, Stefano Morabito dei 16th Cellar Studio (fonico della vita), K2 (il management che mi ha aiutato a trovare le date), Anima Mundi per l’artwork, Emanuel Montini per il mio ritratto e Francesco Russo per le grafiche e il layout, Rita Superbi insegnate di taiko e ospite con la sua scuola nel disco. Per il resto ci vediamo sulla strada, al momento insieme a Devil’s Trade e Forndom, dai quali mi separerà in Francia e per ritrovarli al Roadburn prima di ripartire per un paio di date in Germania e arrivare a Torino, dove il 29 ci sarà la presentazione del disco allo Ziggy. A maggio farò qualche data in Italia prima di andare in Finlandia per il Sonic Rites di Helsinki, un festival al quale sono stata invitata dai Radien (al cui disco ho collaborato come guest), altre date in giro tra Danimarca e forse Norvegia e, prima di tornare a suonare in Italia, il Dunk! Festival a Ghent (Belgio) e ovviamente Hellfest a fine giugno. Direi che è tutto.