LIA KOHL, Normal Sounds

All’atto della percezione, il cervello opera una selezione tra i suoni, distinguendoli in due macrocategorie: quelli meritevoli di analisi e quelli che appartengono alla quotidianità, quel mormorio di fondo che ci accompagna lungo il corso della giornata e che viviamo spesso in modo passivo. La natura del suono antropogenico – artificiale e cacofonico – è al centro della ricerca della sound artist statunitense Lia Kohl: quelli che udiamo ma che in realtà non ascoltiamo sono i “normal sounds” a cui il disco fa riferimento. L’idea di per sé affonda le radici agli albori della musica concreta e pertanto è tutt’altro che originale; ciò che rende meritevole di attenzione Normal Sounds è l’attitudine con cui la Kohl elabora questi spaccati di vita urbana, i cui ritmi, cadenze e pattern vengono mimati all’interno di stralunate composizioni per archi e sintetizzatori in dialogica sincronia con i field recordings.

Se “Tennis Court Light”, Snow ci introduce delicatamente nel mondo di Normal Sounds con una densa meditazione per archi in graduale distorsione sonica, “Car Alarm, Turn Signal” è una lezione post-classical bizzarramente retro-futurista, calata nell’ordinario di un’esperienza borghese (come suggeriscono le note della scialba pop song catturate in presa diretta e poste a conclusione del brano).

“Plane”, terza traccia del disco, insiste sulla stessa formula: una scrittura post-minimalista che si sovrappone – tra breaks e ritorni – a field recordings, per poi deviare verso soluzioni ibride e audaci accostamenti stilistici.

L’aderenza a un genere specifico è del tutto irrilevante per l’autrice, intenta a lacerare e ricucire brandelli di suono (macinando, tra le altre cose, anche muzak di circostanza) dando forma a costrutti non-sense dai lineamenti indefinibili. La Kohl non si risparmia tra innesti sghembi, soluzioni zappiane e fumettistiche parodie metropolitane in salsa hard-boiled (“Car Horns”, con il sassofono di Patrick Shiroishi) ma per quanto possegga creatività e capacità invidiabili non sempre le meccaniche compositive scorrono fluide.

In alcune tracce si avverte lo scollamento tra la dimensione catturata in presa diretta e le incursioni strumentali, come se le singole parti faticassero a compenetrarsi. Una scelta stilistica della Kohl, forse, anche se il continuo e ossessivo vagabondare tra stili alle volte crea uno sgradito effetto “frullato” (“Airport Fridge, Self Checkout”, ad esempio) ricordandoci quanto il sincretismo stilistico possa essere una lama a doppio taglio.

Volendo, nel modus operandi della Kohl si potrebbe scorgere l’intento di una moderata critica verso i suoni della contemporaneità e come essi si diffondano nelle città sovrapponendosi in modo del tutto casuale, come una mente che non riesce a rimanere concentrata. Una simile chiave di lettura potrebbe però risultare fuorviante dal momento che l’artista sembra poco propensa all’indagine sociale, preferendo rimanere una giocosa e curiosa (nonché abile e intelligente) manipolatrice di suoni, come testimonia la conclusiva “Ignition”, con la sua divertita ritmica scandita dallo strofinio delle sneakers sul pavimento.