LIA BOSCH, Polar Code
Glacial Movements.
Polar Code.
Lia Bosch.
Siamo creati al 99% da idrogeno, carbonio azoto ed ossigeno. Il 60% del nostro corpo è acqua. Evaporare o ghiacciare potrebbe essere questione di fortuna, o di opportunità. Lia Bosch è un’artista che finora aveva caratterizzato alcune copertine di Glacial Movements Records con i suoi artwork. In Polar Code si mette in gioco, prendendo con sé l’umanità tutta: già, che il canovaccio sul quale si muove questo lavoro è quello della scoperta di una base al Polo Sud utilizzata per esperimenti e della scelta di un uomo, un agente segreto, confrontato con qualcosa di molto più grande di lui, un infinito che comprende e connette l’umanità tutta all’altro. Non sappiamo come si comporterà l’uomo in questa situazione, ma sappiamo che la sua scelta provocherà un concatenarsi di eventi irreparabili.
Le fiabe sono stupende e terribili, misteriose e capaci di azionare meccanismi reconditi ed inconsci. Così la paura, così l’ignoto. Temi portanti, pesantissimi da portare, ma fin troppo semplici da accennare, da invocare in maniera quasi casuale. Un suono, una traccia sulla neve, un’orma.
Lia Bosch gioca da maestra e mette in scena un lavoro che è volutamente incompleto ma che riesce a scatenare le nostre reazioni così come i film horror degli anni ’30, così come l’udito e il non visto (ricorderete, spero, “Tesis” di Alejandro Amenabar). Sceglie di mettere in scena un disco che è fortemente caratterizzato da un titolo, da un luogo, da un contesto e che questi rispetta ed amplifica. Li amplifica facendo altro, facendo urlare il vento e creando miraggi tra i ghiacchi, in 12 tracce che hanno bisogno di un castello narrativo nel quale farci entrare per farci morire di terrore. Solo che Lia Bosch non ci fa entrare in un castello ma in una base antartica, animando il ghiaccio e discostandosi da una scuola ambientale e gelida, andando invece nella direzione horror di un Kronos Quartet con Philip Glass per “Dracula” o come gli Ovo con “Nosferatu”. Musica che si amplifica e amplifica il medium visivo (o immaginario in questo caso) fino allo spavento. L’alieno forse c’è ma non si vede, il dubbio è tutto umano e l’altro spaventa e distoglie, in una distorsione che è tipicamente del nostro genere.
Il disco non sembra seguire una traccia cronologica o storica, non c’è un aggancio fra trama ed atmosfera in maniera diretta, bensì un insieme di topoi che possiamo ricondurre alla situazione: il freddo, la solitudine, l’incomprensione di una cosa più grande di noi, il senso atterrito della responsabilità, l’onnipresenza del pericolo.
Polar Code è un disco che ci fa riflettere sulla comunicazione e sui comportamenti umani, sul senso del suono come veicolo di messaggi e di codici, sulla possibilità di stabilire contatti ma, principalmente ci parla di senso di colpa e di dramma. Lo fa con maestria, riuscendo a consegnarci un disco che è allo stesso tempo monito e vettore, ricordo e testimonianza.
Che scelta avrebbe fatto Lia? E noi, che scelta avremmo fatto? Ma, soprattutto, perchè la scelta deve toccare sempre agli umani?