LEO ANIBALDI, Muta
Muta ricorda a tratti una versione subacquea di un gospel suonato dai Drexciya, senza però la vena prettamente kraftwerkiana a dare la necessaria propulsione, anzi l’insieme è tendente al funereo, al primordiale. Viene da pensarle tutte queste caratteristiche – non credo di essere l’unico – già al primo approccio con quest’album che definire alieno e seminale è poco. Inutile provare a fare in questa sede la Storia della techno e dell’elettronica, romana nello specifico, ci vorrebbe come minimo un (corposo) capitolo a parte. In origine Muta fu pubblicato in formato cd e doppio vinile nel lontano 1993 dalla ACV di Tony Verde (campano, proveniva dai Saint Just di Jenny Sorrenti), ora rivede la luce grazie a una piccola etichetta, sempre romana, la Lost In It, e il formato scelto per l’occasione è il vinile. Il suono risulta ancora oggi viscerale, oscuro, inesorabile, ad esempio si avverte un forte senso di spaesamento nelle spirali quasi eco-techno di “Muta 2”, mentre “Muta 3” è una variazione su temi carpenteriani, non a caso qui il tiro è decisamente più pop. Il disco, nel complesso, col passare dei minuti assomiglia sempre più a un vortice di suoni al limite dell’inebriante, succede in “Muta 6”.
Anibaldi è conosciuto anche peché ha pubblicato per la Rephlex di Aphex Twin, e onestamente non me la sento di aggiungere molto altro: se siete amanti di una forma di elettronica potente ed evocativa, questa ristampa fa per voi. Capolavoro, questa volta è proprio il caso di utilizzare il termine adatto.