L’elettronica intimista di Entire City, una nuova etichetta e altre storie
Ho seguito un po’ Enrico Cesaro gli anni scorsi, almeno per un paio di uscite a nome “Mace.”. Nel corso del tempo Enrico ha adottato anche un altro alias, Entire City. Nient’affatto ansioso e iperproduttivo come tanti suoi colleghi, poche settimane fa mi ha scritto per farmi sentire How To Be Yourself, che di Entire City è il primo full length, e non ho dovuto pensarci un secondo se costruirci intorno qualcosa: un disco intimo, malinconico, vulnerabile, personale anche come musica, a suo modo melodico, privo o quasi di battiti, atmosferico eppure molto pieno e con volumi importanti, caratterizzato da vere e proprie distese ininterrotte di suono, in primis, almeno mi pare, quello di synth spesso deformati e pulsanti, ma anche di quello processato di altri strumenti o di campionamenti, sovente di vocalizzi che arrivano da chissà dove e che sembrano avvicinarsi a noi come fantasmi (dunque ricordi) dopo essere riemersi dal nostro subconscio, un tipo di soluzione che mi ha fatto pensare a David Sutton/LXV e a Kara-Lis Coverdale, anche se qui è tutto molto più emotivo.
Per pubblicare questo disco Enrico si è appoggiato alla spagnola Angoisse, con cui ha già lavorato in precedenza, ma ha anche fondato una sua etichetta, Viscm, con cui muoversi in autonomia, senza seguire troppi dettati. Dunque le notizie erano due (nuovo disco, nuova etichetta): convinto, come dicevo, da un biglietto da visita eccellente come How To Be Yourself, ho pensato di regalare un po’ di spazio al sig. Entire City, così che possa parlare senza troppi filtri delle sue intenzioni.
Perché Entire City?
Enrico Cesaro: Ciao Fabrizio.
Entire City arriva da un mix di sentimenti in fase di pandemia, momento in cui ho percepito l’interezza della città in maniera completamente diversa dal solito, e quindi non tramite la presenza di persone attorno, ma attraverso la “non presenza collettiva”, che mi ha un po’ rimandato ai concetti junghiani di inconscio collettivo, psicosfera, esplosione rizomatico-psicotica generalizzata. Allo stesso tempo, è il titolo di un quadro di Max Ernst che mi piace molto, quindi ho fatto 1+1.
Parliamo di How To Be Yourself: lo hai registrato da solo? Dove? È passato anche per altre mani a livello di artwork, mastering e altro?
Da solo, come con le altre cose. Ero a casa dei miei genitori, in campagna, l’ho registrato di getto in 3 giorni con alcune cose precedentemente suonate, e poi ri-processate elettronicamente. L’artwork è una foto di me e mia madre, scelta un po’ per gioco. Quando una mia cara amica in un bar ha aperto una chat whatsapp, l’ha vista ed è esplosa a ridere. In quel momento, a parte avere forte carica emotiva, sembrava essere anche estremamente comica. Mi piacciono i contrasti, in generale. La foto è stata poi lavorata dal mio amico Alberto, che ha già messo le mani su altre cover di dischi precedenti, il logo sul front – che poi è anche il logo dell’etichetta – è del coreano Wesley So, invece la musica è masterizzata da Gianmaria Dell’Aera al Dadub Studio.
Come mai questo intimismo così evidente rispetto al passato?
Niente di pre-pensato, un improvviso mix di nostalgia e analisi di dinamiche familiari.
E come mai quest’assenza di battiti veri e propri?
Per quanto apprezzi tantissimo il lavoro ritmico/drums di altri artisti, sono sempre stato mosso maggiormente dalle linee melodiche. E per questo motivo non ho mai fatto tracce di solo beat, semmai la parte ritmica di batteria andava a “sorreggere” il resto. Ho anche una certa tendenza a tenere le melodie “alte” e mi affascina quando qualcuno ha una preferenza e le spinge, nelle decisioni primarie ma anche nel mixing. Questa “preferenza” mi fa capire il carattere del lavoro, mi fa capire il racconto che c’è dentro. E di conseguenza certa musica molto “bilanciata” in termini di volumi, mixing e packaging mi annoia di più. In generale mi piacciono gli artisti che si prendono il rischio di muoversi come cazzo pare a loro: sembra scontato, ma non lo è per niente, soprattutto in questi tempi di proclamata libertà, che poi tanto effettiva non è.
Altri due motivi sono che mi reputo abbastanza una frana con le drums e che credo una parte di me volesse stavolta rendere/sostituire l’impatto della batteria con una sorta di estremizzazione dello spazio melodico, sia a livello di stereofonia che di sound design.
How To Be Yourself è disco che ho percepito immediatamente come bello e capace di parlare a tutti, mi vien da dire perché hai allargato il ventaglio dei suoni che possono entrare in un tuo lavoro. È vero? Come sei cambiato, a livello di gusti e ascolti, durante questi anni?
Mi fa sempre un po’ sorridere (in maniera benevola e curiosa) quello che gli altri captano dai miei lavori rispetto a quello che ci vedo dentro io. Altre persone mi hanno detto che sembra un lavoro più “facile”, nel senso buono del termine, come dici tu, più ascoltabile e comprensibile forse. Io non l’ho mai percepito così ma c’è anche da dire che non sono in grado di avere un giudizio più o meno strutturato su quello che faccio. Forse anche per questo a volte cado dalle nuvole in relazione a feedback esterni, ma questi feedback sono essenziali perché mi danno materiale su cui riflettere in maniera diversa dal mio “errare”.
In realtà a me suona più “difficile” di altre cose precedenti, probabilmente perché racchiude uno spettro emotivo più intenso e sentito, più personale, ma mi fa piacere arrivi in maniera spontanea e indifferenziata.
Diciamo che se fino a qualche anno fa ero praticamente ossessionato dal continuo ascolto di roba nuova, principalmente elettronica, ultimamente ho virato e sono tornato ad uno “slow listening”. Sarà perché sono invecchiato, e forse anche perché ho realizzato che quel tipo di ascolto non era più sostenibile. Forse all’epoca dovevo anche riempire un certo tipo di silenzio, che invece adesso abbraccio di più.
Stai avviando un’etichetta in un’epoca di sovrapproduzione e impossibilità di ascoltare tutto. Perché? Che obbiettivi hai, a parte quello comune al nostro di aiutare artisti in cui credi? Che “discorso” vuole fare la tua etichetta a chi in futuro vorrà seguirne le vicende?
Credo che sia proprio l’epoca di esubero ad avermi spinto a partire con Viscm. In questo modo posso focalizzarmi su ciò che sento sia significativo per me, e scremare il resto. Sono una persona abbastanza insicura su certe cose, ma per altre ho una certa presunzione e voglia di mostrare i miei gusti. L’idea all’inizio è partita insieme alla mia amica Annachiara, che ora mi aiuterà invece più come editor.
Non direi l’obiettivo principale sia propriamente quello di “aiutare” artisti che mi piacciono: purtroppo o per fortuna, come tutti gli altri umani, credo che anche gli artisti si debbano in primis aiutare da soli. L’idea che più mi sta a cuore è quella di creare un pavimento per “camaleonti”, artisti in cambiamento, che non hanno paura di spingere idee nuove e di uscire dalla formula comoda dei lavori precedenti o di generi più o meno istituzionalmente definibili. Spesso – non sempre – questo va ad implicare produttori che non hanno idee chiarissime su quello che stanno facendo e neanche sentono la necessità di spingerlo più di tanto. Qui subentro io. Oppure sono persone che hanno anche chiaro quello che vogliono fare, ma la sensazione di loro stessi come musicisti è più vicina a quella di un regista, o di un artista visivo, con la libertà di rappresentare le loro visioni ogni volta in maniera diversa. Non c’è niente che mi annoi di più della “abitudine”, della “formula” e della “comodità” a livello artistico.
Mi immagino Viscm come un fil rouge che colleghi questo tipo di dinamiche personali psico-sociali, piuttosto che tratti sonori o di stile, anche perché non ho mai avuto particolari interessi per specifici generi, dunque la cosa mi viene piuttosto spontanea.
L’ultimo motivo, o forse il primo, è anche che volevo autoprodurmi per la prima volta. Per uno che non ha sentito il bisogno di curare più di tanto i contatti nel mondo musicale e che cambia continuamente visione stilistica, non è facile farsi ascoltare, identificare, e pubblicare. E le demo non esistono praticamente più.
Oltre al tuo disco come Entire City, hai in programma altre due uscite, una che mi aspettavo da te e una che esplicita il tuo interesse per l’hip hop, quello più per persone con gli occhiali che per chi sta sulla strada. Ti va di parlarne?
Certo. Col passare degli anni il mio rapporto con certi tipi di hip-hop è cresciuto esponenzialmente, tanto che, in maniera del tutto spontanea ho cominciato ad includerlo in ogni mix o radio show. Credo che l’hip hop attualmente possa rappresentare chiunque: se è vero che la distribuzione di ricchezza è sempre più caratterizzata da forti diseguaglianze, è anche vero che anche persone del ceto medio o che vivono in economie sviluppate si sentono “ai margini”. E l’hip hop da sempre rappresenta uno dei pochi strumenti di “rottura” e “ricomposizione” nelle mani dei giovani “ai margini” delle metropoli.
La seconda uscita sarà di un artista il cui progetto solista è completamente sconosciuto, ma che prima suonava come batterista in una importante band australiana “The Jezabels”. Il suo ep non ha niente a che vedere con il suono della band: il disco è un qualcosa di industrial-glitchy-hip hop. La particolarità è che i campioni di batteria sono stati registrati in natura tramite microfono ambientale e successivamente assemblati ritmicamente, quindi non nascono assolutamente come suoni di batteria. I testi sono un rimaneggiamento in chiave più street-sociale di temi Hegeliani ed economico-Marxisti, che mi hanno toccato subito, data la mia vicinanza all’ultimo tema.
La terza in programma è invece di Hikari Sakashita, anche lui batterista, che ho conosciuto personalmente a Berlino e con un lavoro dai suoni un po’ più lounge-meditativi, ma pur sempre mantenendo una certa carica di tensione.
Se uno legge i titoli dei pezzi di Mace., si vede come tu abbia una fissa per l’economia, la finanza e i suoi effetti sulle persone. Secondo te, può esistere un underground musicabile sostenibile? O è un mondo di piccoli produttori destinati ciclicamente a esser mangiati dal pesce più grosso o morire?
Io credo che la sfera musicale, come probabilmente altre sfere, possa essere paragonabile a quella sociale, economica, della vita di tutti i giorni. La risposta qui è quasi impossibile, perché si tratterebbe di incorporare mille situazioni diverse e mille obiettivi diversi di altrettanti artisti diversi. Spesso alcuni produttori più piccoli e sconosciuti rimarranno tali perché non sono disposti ad accettare certe dinamiche di self-marketing che sono imperversate in maniera sempre più accelerata negli ultimi anni. Io credo di far parte di questo gruppo. Sicuramente la realizzazione di non riuscire a calzare con quelli che possono essere certi standard contemporanei crea una certa sofferenza e frustrazione, ma l’unica via è quella di guardarsi costantemente dentro e ricordarsi che il proprio obiettivo in realtà non è mai stato quello che, a volte, triggerati dalla iper-presenza di social media sharing, strategie di promozione e aggressivo self-marketing, si pensa di avere.