Le webzine, tra presente e futuro. Indagine sull’informazione musicale online di casa nostra
Pure le webzine hanno ormai una vita piuttosto lunga alle spalle, siamo sui venti anni circa. In Italia a traghettare la scrittura musicale sul web ci pensa il pluri-citato Piero Scaruffi, che incomincia a occuparsene agli inizi degli anni Ottanta per poi mettere a punto il suo scaruffi.com nel 1995 (un altro dei siti storici è Rockol). All’estero tra i primi ci sono Pitchfork, Brainwashed, Vital Weekly, poi arriveranno, tra gli altri, Consequence Of Sound, The Quietus e via elencando. Va aggiunto che nel giro di pochi anni è tutto un fiorire di blog e forum, che in alcuni casi fanno da corollario agli stessi magazine on line. Le webzine si muovono parallelamente alle più storiche riviste, ma un confronto è quasi impossibile, si tratta di due mondi in qualche modo diversi tra loro. I motivi di queste differenze sono in prevalenza di tipo tecnologico e generazionale. Siccome oggi la fruizione della musica si è spostata moltissimo sul web e siamo sempre in Rete (pc, telefono, tablet…), è inevitabile che l’utente cerchi o crei dei magazine on line, perché è on line che la sua passione si alimenta. Qualche riflessione sullo stato attuale va fatta: i web-magazine sono letti e seguiti sui social, gli appassionati possono ascoltare e acquistare quantità industriali di musica in streaming e da anni possono reperirla con estrema facilità sui vari siti di file-sharing, a fine Novanta c’erano Napster e Audiogalaxy, poi sono arrivati eMule, Soulseek e gli mp3 blog… L’accesso alle informazioni è facilitato grazie a enormi database specializzati come Discogs e Resident Advisor, giusto per fare un paio di esempi. Intanto la musica stessa è cambiata, i singoli “generi” si sono fatti sempre più meticci, il tutto si spiega con la maggiore diffusione di certe tecnologie di registrazione e con l’avvento della globalizzazione, di cui non a caso Internet è uno degli agenti principali.
Tornando alle webzine, fare un censimento già solo in Italia rimane operazione ardua e frammentaria, provate a cercare degli elenchi sul web, oppure provate a cercare la voce specifica su Wikipedia, troverete giusto poche righe. In questa sede mi preme porre l’attenzione sulle realtà – quelle che hanno più anni di storia alle spalle e che risultano più eterogenee nei contenuti – più attive al momento, ho chiesto loro come si sono sviluppate e quanto e come si rinnoveranno col tempo. Ho provato quindi a fare una selezione personale – il più ampia possibile – tra quei soggetti che ritengo maggiormente indicativi del mondo editoriale d’oggi. So bene che sul web ci sono numerose realtà grandi e piccole, non me ne vorranno coloro che non ho coinvolto. In principio avevo usato come metodo di selezione anche quello del gradimento sui social, ma in tutta onestà l’avevo trovato effimero. Ho inoltre chiesto ai direttori quali saranno le mosse da fare nell’immediato futuro. Le risposte ricevute chiariscono una serie di aspetti della questione, che rimane complessa da affrontare…
Le interviste
Claudio Fabretti (OndaRock)
OndaRock è nata nel 2000, sono passati ben 17 anni e non sono certo pochi. Come e quanto è cambiata la webzine rispetto a quei tempi e sei soddisfatto del lavoro svolto finora? Senti che potete migliorare ancora? E come?
Claudio Fabretti: Sono soddisfatto, anche se penso che potremmo fare ancora di più, soprattutto sul piano degli approfondimenti tematici e degli sviluppi multimediali. La webzine comunque si è trasformata moltissimo negli anni: all’inizio era di fatto una rivista cartacea trasferita integralmente sul web, oggi è un moderno web-magazine con contenuti video, audio, multimedialità, interazioni social e tutto quello che i tempi attuali richiedono a chi vuole fare informazione su Internet. Sicuramente abbiamo anche ampliato notevolmente le sezioni del sito, con nuove rubriche, con le news aggiornate, con contenuti nuovi e originali rispetto a quelli dei primi anni.
Io l’ho sempre vista come una sorta di contenitore, col tempo diventato sempre più grande, dove si possono trovare tanti spunti e naturalmente opinioni diverse, non necessariamente tutte condivisibili. Come si fa a gestire una mole di lavoro cosi importante? Immagino tu non faccia tutto da solo, ovvio…
Per fortuna la tecnologia ci aiuta, attraverso le possibilità di un “telelavoro collettivo” organizzato attraverso un’area intranet, un forum redazionale e una chat che ci permette di restare costantemente in contatto. Abbiamo una redazione piuttosto ampia, con un coordinamento affidato a due capiredattori, più diversi collaboratori esterni che ci contattano per proporre articoli. Io mi occupo della direzione editoriale, delle revisioni e delle scelte tematiche, ma amo soprattutto scrivere. Quanto alla diversità di opinioni, è un po’ la nostra insidia e la nostra arma in più: crediamo profondamente nella pluralità delle opinioni e nella non-necessità di una linea editoriale oppressiva, che imponga diktat e limiti la libertà espressiva di ogni redattore. I lettori col tempo hanno avuto modo di conoscere tutte le (tante) anime che abitano nella nostra redazione: diversi gusti, approcci, modi di vedere e valutare la musica. Se riescono a entrare in questa ottica, si rendono conto facilmente anche di molte (apparenti) contraddizioni presenti sulle nostre pagine.
Le webzine nascono come una risposta-aggiornamento tecnologico rispetto alle riviste, tendo a pensarle come a una loro versione digitale, con tutti i pregi e i difetti del caso. Sul web c’è la possibilità di ascoltare i brani ad esempio o di guardare i video. Questo ha portato indubbiamente a una maggiore diffusione della musica, ma allo stesso tempo non credi che si sia in qualche modo allargato parecchio il bacino d’utenza che riguarda proprio gli artisti e le band? Confesso di avere una certa difficoltà a gestire tanti dischi…
Sì, uno dei problemi dei nostri tempi è proprio la mole smisurata di informazioni, di uscite musicali e di novità di ogni tipo che ci troviamo a gestire. Noi stessi fatichiamo a rispondere alle proposte degli artisti, spesso siamo costretti a fare delle scelte nette, abbandonando velleità enciclopediste. Però ritengo che nel panorama dell’informazione musicale – online e non – OndaRock sia una delle testate che garantisce più varietà di scelte musicali, ci occupiamo praticamente di ogni genere, a dispetto del nome, che qualche lettore un po’ oltranzista continua a ritenere legato all’idea di un monopolio assoluto della musica rock: non è mai stato così sulle nostre pagine, né tantomeno può esserlo oggi, in un periodo in cui il rock ha perso la sua centralità e si è trasformato, ramificandosi in mille rivoli. Insomma, cerchiamo di fare il possibile, compatibilmente con la babele discografica di questi anni.
In merito ai contenuti, se non erro OndaRock si basa sulla collaborazione volontaria di numerosi critici e giornalisti, succede nella stragrande maggioranza delle webzine, compreso The New Noise. Mi chiedo, un sito come il vostro – che comunque riesce ad inglobare banner pubblicitari anche di grossi marchi e magari ha dei dati di traffico di una certa rilevanza – continuerà sulla strada delle collaborazioni o credi che prima o poi si possa generare un indotto economico utile a sostentare chi ci scrive?
Beh, anzitutto i banner pubblicitari di grossi marchi sono sempre mediati da un’agenzia che ci garantisce solo una parte degli introiti: insomma, non è che negoziamo banner direttamente con la Ford o con Sony Pictures. Negli ultimi anni per fortuna riusciamo ad avere qualche introito pubblicitario in più, che ci permette non solo di coprire le spese – come è stato finora – ma di poter sperare in qualche investimento futuro sul sito e in qualche forma di minima retribuzione anche per i principali collaboratori. Speriamo di poter migliorare ancora, ma la prospettiva di poter uscire del tutto dal lavoro volontario mi pare al momento utopistica. Del resto, noi scriviamo tutti per passione, per promuovere la musica che amiamo, come se fosse, per l’appunto, una forma di “volontariato musicale”, ma non chiediamo un centesimo ai lettori, a differenza di riviste cartacee in cui magari l’editore e il direttore guadagnano – in passato, ad esempio, anche attraverso i fondi per l’editoria, oltre che con il prezzo di copertina – e i collaboratori non vengono pagati. Capita ancora oggi in molte testate cartacee, ahimè. Insomma, se dev’essere lavoro gratis, lo sia su tutto il fronte: trovo assurdo chiedere soldi ai lettori, quando poi non si paga chi lavora attivamente per il giornale.
Quanto è importante l’interazione di OndaRock sui social network e quanto è necessario diversificare la proposta editoriale? Serve davvero avere tanti fan sui social? Corrispondono ad altrettante interazioni? Voi avete creato anche un sito apposito per il cinema, OndaCinema…
Sicuramente oggi è molto importante, cerchiamo di usare al massimo i nostri canali social per promuovere anzitutto i contenuti del sito e poi anche per fare informazione musicale, con le notizie del giorno. Le interazioni servono, e ci sono, ma per me non sono l’aspetto principale. A me preme soprattutto far conoscere l’immenso lavoro che sta dietro OndaRock, il suo sterminato archivio, i suoi contenuti esclusivi e, spesso, unici nell’intero web. OndaCinema è un mondo a parte, con una diversa gestione e una diversa redazione, anche se fa comunque riferimento a me. È una webzine più giovane ma molto ambiziosa, che si propone di riuscire negli anni a eguagliare il lavoro di OndaRock in campo cinematografico.
Hai dei modelli di riferimento per quanto riguarda i siti musicali, esteri e italiani?
Sinceramente, no. Siamo sempre stati un po’ atipici, un po’ “cani sciolti”. Andiamo per la nostra strada sperando che possa incontrare i favori dei lettori, ma senza un modello di riferimento preciso. Qualcuno ha parlato di Pitchfork, che pur con tutti i difetti resta un sito coi fiocchi: beh, ci piacerebbe avere il suo successo, ma non pensiamo assolutamente di ricalcare quel modello, soprattutto dal punto di vista editoriale, siamo molto “gelosi” della nostra peculiarità.
Come vedi il futuro delle webzine? Avranno ancora un senso secondo te o vedremo nascere altre “scatole digitali” coi soli brani da ascoltare, come già avviene con Spotify e iTunes?
Spero che non succeda mai, spero che ci sia sempre chi ha voglia di leggere opinioni, di approfondire, di “studiare”, direi, le storie e i fenomeni musicali. Trovo molto avvilente ridurre la musica al solo ascolto di una playlist magari preconfezionata da altri, così come subire passivamente le scelte dei network radiofonici. Dopodiché, ho anche il massimo rispetto per i lettori che hanno poco tempo e vogliono semplicemente consultare classifiche, liste di dischi consigliati, voti, scalette di Spotify: spero solo che possa essere il primo passo per incuriosirsi e avvicinarsi in modo più approfondito a quegli artisti e a quei dischi. Insomma, per quanto mi riguarda, lunga vita alle webzine e alle recensioni musicali.
Domanda da un milione di dollari… Un grosso gruppo editoriale a un certo punto decide di comprare OndaRock, come successo ad esempio in USA con Condé Nast che ha acquisito Pitchfork Media. Tu accetti? O possiamo tranquillamente rimanere nell’ambito della fantascienza?
Dipende da quanto offre! A parte gli scherzi, credo che saremmo certamente interessati a una proposta editoriale che possa valorizzare il nostro lavoro e, perché no, garantirci un ritorno economico interessante, almeno ad alcuni di noi. Sempre che possiamo restare liberi di continuare a fare il nostro lavoro senza troppi condizionamenti, però. Il bello di OndaRock è questo, non avrebbe senso ridurlo a qualcos’altro, tra l’altro sicuramente molti collaboratori non accetterebbero di veder comparire i loro articoli sotto una testata stravolta e piegata magari a interessi commerciali molto distanti dalle nostre coordinate. Insomma, rischierebbe di restare solo il nome, come un guscio vuoto. Temo comunque che sia ancora fantascienza, anche se mai dire mai… A me stupisce, più che altro, che in Italia nessuno dei grandi gruppi editoriali si sia interessato al nostro caso: credo che sarebbero potute sorgere quantomeno delle collaborazioni interessanti. Alcuni tipi di contenuti sono veramente una nostra esclusiva assoluta: non ce ne sono tanti, in giro, di pazzi come noi!
Edoardo Bridda (Sentireascoltare)
Sentireascoltare ha una storia piuttosto complessa e più che decennale, se non erro. A differenza di altre webzine è uscita pure per qualche anno come rivista, oltre ad avere gestito una TV… insomma avete avuto a che fare anche con le edicole, mi pare che l’intento iniziale era quello di unire più media e il digitale al cartaceo, poi…
Edoardo Bridda: Il sito è nato in origine come un prolungamento ideale del saggio contenuto nella mia tesi di Laurea in Scienze Politiche. Il titolo è noiosissimo e mi era stato imposto affinché fosse funzionale a non so quale protocollo accademico (era tipo “Storia sociale della musica contemporanea”, orribile…) ma il saggio s’intitolava Sentire e Ascoltare. Online sul sito non lo tengo più da anni ma si trova comunque in rete. Ripensando a ciò che ho scritto vent’anni fa mi vengono in mente varie derive un po’ new age che oggi potrebbero finire in qualche giffazza vaporshit stile Windows 95, ma in realtà il concetto socio-filosofico dietro a Sentireascoltare è ancora bello potente. È un continuum: da una parte c’è un sentire che nessuno possiede in purezza. È il nostro naturale esperire i suoni e attribuir loro un senso specifico e non condivisibile. È legato a ciò che Giuliano Piazzi ha postulato come il – mitico e criticatissimo – sé bios. Dall’altra c’è l’ascoltare, ovvero la nostra capacità di vivere l’esperienza d’ascolto all’interno di un vissuto che irrimediabilmente è stato penetrato (e uso questa parola che fa ridere apposta…) dal sociale. Il sociale si traduce nell’influenza che la comunità, la società – e prima – la famiglia, il capitalismo ha esercitato su di noi. E ora parte il bignami teorico: in condizioni di società consistente è il sociale a bonificare la psiche modellandola secondo proprie esigenze. In condizioni di società evanescente (quella contemporanea) il sociale non fa più bene il suo lavoro ma c’è il Capitale – e vai di Marx… – che lo fa meglio di lui. La cosa bella che viene fuori è che in una società marcia emerge per la prima volta un sentire non proprio scolarizzato a dovere. Quindi, in soldoni, ci troviamo nelle condizioni di “sentire” di più ma non senza che un nuovo evil sistema ne tragga vantaggio. Qui sarebbe bello riprendere tutto un discorso che parte dai post-strutturalisti ai vari accelerazionisti e post-marxisti, Mark Fisher, etc. ma, stringendo, succede che quell’Evil Empire del Capitale ha preso il posto del sociale a livello di primato sulla bonifica dei nostri sistemi biopsichici. Quindi inutile star a guardarla come il classico “stavamo meglio prima”. I bastardi là fuori hanno sempre cercato di autoperpetuarsi alle nostre spalle. Sociale e Capitale agiscono entrambi esternamente sulle nostre vite (e qui il riferimento è la Coscienza Collettiva di Durkheim e non la letteratura cyberpunk) ma la differenza è che a Zio Capitale piace far piazza pulita del senso socio prodotto che attribuiamo alle cose perché – e vado di forbici – gli rompe le scatole a fini della monetizzazione e della massimizzazione del profitto. Ecco perché discutere se era meglio prima o meglio oggi è un po’ una cazzata come lo è anche stare a misurare il livello di sentire o di ascoltare dentro ognuno di noi. Il continuum è lì comunque, si riduce a due parole che tutti possono capire e distinguere e che dietro si portano tutta questa bibliografia malamente riassunta in questa sede ma che tuttora possiede la sua forza e guida.
Quella del magazine è stata una bella epopea. Dopo due annetti di socio-sentireascoltare, una rubrica sempre a sfondo tesistico su Rockerilla e le prime basi del sito a mo’ di fanza post-Scaruffi in parallelo a OndaRock, che grossomodo era stata influenzata dallo stesso modello strutturale. Per capirci: il grosso era puntato sulle schede dedicate agli artisti e alle band all’interno delle quali mano a mano si accatastavano/amalgamavano le recensioni che formavano così una narrazione in evoluzione delle loro biografie (con Google ad apprezzare tutto ciò…). Ci è venuta questa idea di darci una mensilità per diverse ragioni. Eravamo cresciuti tutti i con i magazine, molti di noi ci scrivevano anche, ma stamparne uno nostro a livello nazionale costava troppo e visto che il web ce lo consentiva abbiamo pensato che questa strada ibrida era intanto un inizio. Stefano Isidoro Bianchi, mi par di ricordare su un vecchio Blow Up, criticò poi con le sue buone ragioni questa strada, ma col senno di poi l’avventura del magazine è stata di capitale importanza non tanto per la sua performance editoriale (non era male eh, intendiamoci…) ma quanto per l’abitudine che ha innescato in chi stava su SA a lavorare (ehm, scrivere…) con delle scadenze precise, pratiche, reali. Insomma dovevamo chiudere il fottuto magazine come i cugini cartacei. A forza di scrivere e di perenni scornate, questo allenamento, ritmo e naturalmente anche selezione naturale e innaturale darwiniana delle penne, ha prodotto un risultato che all’esterno è stato riconosciuto. E la nostra autorevolezza sul web italiano conquistata.
Quali caratteristiche e che gusti ha il vostro lettore tipo?
Dal 2002-4 a oggi il lettore tipo sono diventati I lettori tipo. Non ci ho voluto mai fare uno studio di marketing ma la pratica e la quotidianità del web dopo anni ti dà quella visione un po’ disincantata delle cose: c’è uno zoccolo duro di lettori che seguono SA rispetto a ciò che sono i loro interessi musicali. È un pubblico di quasi laureati fino ai quasi cinquantenni – che odiano Sanremo ma a X Factor un giro se lo fanno – all’interno del quale trovi un filone chitarristico e sperimentale indipendente (i nicchiari…), uno legato all’eredità sempre chitarristica degli anni Novanta (e qui ci metti un po’ di tutto, dai fan dei Radiohead agli Arcade Fire, Rage Against The Machine, REM, etc.), quello più ristretto legato a certa elettronica d’ascolto che ora è sempre più hip hop, quello legato ai cantautori e melodisti che va volentieri a braccetto con l’indie italiano. Trasversalmente ci mettiamo dentro il lettore retro-maniaco (consapevole o meno di esserlo) che, ok le robe nuove ma soprattutto le ristampe, gli speciali su questo o quell’autore, gli album classici. Poi, parlando di grana grossa, la massa critica di un sito web nazionale come il nostro la fa il traffico organico e quel traffico lì – sempre meno Facebook orientato per politiche note che non sto ad approfondire qui – è fatto di mordi e fuggi di news e di cose che di volta in volta la gente si va a leggere su un sito senza magari sapere che cazzo ha aperto… Negli ultimi anni – dal re-style del 2012 ad oggi – abbiamo prestato un occhio di riguardo non tanto ad un appassionato musicale preciso quanto a un ragazzo o a un giovane adulto (biologico o di spirito) che rientrasse in un certo stile di vita e di passioni che è poi quello vissuto dai ragazzi che scrivono su SA. Quindi non abbiamo mollato la qualità e l’approfondimento musicale, certo che no, ma abbiamo iniziato a parlare anche di telefilm, abbiamo informato i lettori sui festival nazionali e internazionali in maniera puntuale e continuativa, abbiamo raccontato aneddoti e curiosità tecnologiche legate a vinili, telefonini e synth analogici, sviscerato le ultime normative in fatto di SIAE e diritto d’autore, etc. Insomma ci siamo affacciati quotidianamente sulle vite di persone differenti con gusti differenti fornendo letture anche brevissime, fino a polpettoni chilometrici da leggere.
Avete molti collaboratori? Come vi gestite? Riuscite ad ammortizzare le spese? Do per scontato che il lavoro di molti di loro sia di tipo volontario…
Saranno una quarantina ma il numero varia. C’è un ciclo fisiologico di quattro anni in molti writer, abbiamo notato con i più vecchi qua dentro. E poi c’è sempre stata negli anni una minoranza di contributor super prolifici e una maggioranza a vario livello di partecipazione mai del tutto prevedibile. C’è chi nel tempo scrive di più, c’è chi rimane sempre lì, quindi il numero dei collaboratori è sempre un indicatore un po’ beffardo. E sì il successo di tutte le regole che puoi mettere in campo dipendono sempre da A, la ritualità che piazzi nel gioco (cadenze pratiche di consegna) e B, dal fatto che non puoi sistematicamente pagare il lavoro a tutti e di conseguenza non puoi pretendere tempistiche tiranniche.
Avete dei modelli di riferimento editoriali, anche esteri? Quali in particolare? Sulla vostra pagina social è scritto: “SENTIREASCOLTARE è la piattaforma che accoglie il più avanzato progetto di editoria musicale in Italia, con oltre 10.000 artisti e 20.000 recensioni”.
Lo slogan è bello carico n’è vero? Lì l’accento è volutamente puntato sulla piattaforma. Quando nel 2012 abbiamo fatto il re-style abbiamo puntato in grande osservando tutti i maggiori portali internazionali e cercando di trovare una nostra via. Molti ci chiamano il Pitchfork italiano ma l’associazione, benché ci lusinghi, è fuorviante, uno perché non facciamo trend-setting coi votoni e due perché, andando a ben vedere, uno può trovare nel sito la parte festivaliera più simile a Consequence Of Sound o quella delle news più vicina a FACT Magazine, giusto per dire il numero due e il numero tre dei portali più influenti a livello di traffico internazionale/musicale un poco targetizzato. Rolling Stone America, Billboard & co. pertanto non ci hanno fornito alcuno spunto valido in questo senso.
Altra cosa che noto, oltre a un’evidente crescita sui social, Facebook in particolare, è il fatto che pubblicate molte news (col tempo i testi brevi mi sembrano aumentati…), ma c’è comunque spazio per lunghi approfondimenti e per le classiche recensioni, oltre ad esempio alle gallery fotografiche dei concerti che però – parere personalissimo – non amo particolarmente… vanno bene anche quelle nell’economia del sito? E le interazioni dei lettori sui social corrispondono al numero di fans effettivi?
In parte la risposta l’ho già data sopra. L’era Facebook è finita. O perlomeno è finita per noi dopo una bella storia d’amore durata boh, quattro anni? È noto che il social network punti molto a monetizzare le pagine pubbliche, specie quelle che iniziano ad avere numeri consistenti, per cui la storia va così: quando sei piccolo ti fa sentire un Re e poi mano a mano che hai speso anche dei soldi per far crescere la tua fan-base ti ritrovi che ogni due per tre l’algoritmo ti chiede se vuoi scucire quei due eurini per far arrivare a più gente il contenuto tra gli ultimi X che tira di più. Ha completamente senso – e mi rifaccio alla sociologia sopra – che il sistema Facebook punti a massimizzare il suo profitto interesse (che è tenere la gente su Facebook) ed è anche vero che il paradigma friendly e “giovane” di comunicare le cose non lo stiamo applicando, ma allo stato attuale non ci sono alternative valide per cui un post all’ora e via con recensioni, news, interviste, speciali etc. il tutto a rispondere a quel discorso sullo stile di vita che porta i lettori sul nostro sito anche solo per togliersi una curiosità o leggersi un fatto di cronaca. Twitter in Italia funziona solo in certi ambiti (politica? I calciatori? Sanremo?) ed è soprattutto mainstream. Noi lo usiamo più che altro per far sapere agli artisti che parliamo di loro. Foto-gallery? Sapevi che negli ultimi quattro anni ho più richieste di fotografi che di giornalisti? Il successo delle foto è molto legato alla personalità del fotografo. Francesca Sara Cauli ha i suoi fan che la seguono costantemente, per esempio. In generale le foto funzionano se chi è fotografato è un’icona. E qui la regola dei numeri web equivale un po’ al cachet e al numero di persone che uno ha sotto il palco.
A questo proposito, si può pensare a un futuro più immediato per riuscire a monetizzare abbastanza per dare il giusto corrispettivo ai critici/giornalisti, oppure, come già sottolineato da Lo Mele di Rumore, i tempi non sono ancora maturi per vivere solo di contenuti digitali?
Essere un editore digitale in questo momento è come tornare negli anni Venti (alla velocità del turbo-capitalismo però). E la gratuità è il prezzo più alto che paghiamo alla fine della fiera. Fuor di slogan: si tratta di continuare ad investire sulla qualità, ma non a casaccio, e sperare per il meglio. Di sicuro vediamo l’editoria furbona e modaiola quanto è appesa al filo di Facebook e come dicevo su, se il sig. Zuckerberg abbassa il pollice poi sono cazzi… Se lavori per anni ad un certo livello non solo qualitativo ma proprio anche delle singole pagine-concerto che metti, delle singole foto che carichi, c’è un sorta di mano invisibile che pian piano ti porta su – sintetizzo – ma raggiungere il peso sufficiente per poter dire, oh sì ora siamo una company vera, equivale a dire – e torniamo al discorso anni Venti – che sul web non puoi essere il negozietto sotto casa, devi esser per forza una cosa molto più grossa (e ancora non basta per tirar su tre stipendi). Poi ok… se sei il sito fashionista legato al gruppo editoriale che prende i soldi dal suo network è tutta un’altra storia. Io ti parlo di uno che da zero è venuto su con un sito di musica in Italia.
Domanda da un milione di dollari… Un grosso gruppo editoriale decide all’improvviso di allargare il proprio raggio d’azione e ti chiede di acquistare il sito, come successo di recente in USA con Condé Nast che ha inglobato Pitchfork Media. Tu che fai? Siamo nella fantascienza pura o una cosa del genere accadrà prima o poi anche in Italia?
Se ne parla, ovvio. Vediamo le condizioni. Pitchfork da prima a dopo è cambiato un po’. È più patinato. Ma il tiro dei loro pezzi è rimasto quello e così il modo che hanno sempre avuto di approfondire la materia. Io come lettore loro non mi sono sentito tradito o che. Mi acquistasse Condé Nast con lo stesso scarto che vedo io dall’esterno e accetterei. Ma se mi acquistasse Condé Nast per il mercato italiano immagino che da qualche annetto avrei già dovuto parlare in un certo modo dell’equivalente Hip Hop americano in Italia che è… ehm… no, non è la trap.
Come vedi il futuro delle webzine? Avranno ancora un senso secondo te o vedremo nascere tante altre “scatole digitali” coi soli brani da ascoltare, come già avviene grazie a contenitori come Spotify e iTunes…
Internazionalmente c’è ancora bisogno di Pitchfork che è fatto alla vecchia maniera, recensioni e recensioni. Perché anche solo il voto delle recensioni è da sempre ciò che la gente guarda per farsi un’idea. Per parlare. Se ascoltiamo musica siamo persone “sociali” e pertanto parliamo di musica. Non smetteremo di farlo. E non smetteremo di fidarci delle fonti più autorevoli che ci parlano di musica anche solo sbirciando le loro classifiche. L’anonimo scambio di playlist e relativi commenti su YouTube o social vari è una vita di conoscenza da quando esistono i forum, ma le recensioni in tutto questo tempo non sono mai morte come non sono mai morti i contenuti scritti da qualcuno che ha un certo seguito all’interno di un portale rispettato. Il bisogno della gente, specie degli italiani, di farsi influenzare da qualcuno investito di speciali proprietà divinatorie è assodato. E per influenzarli nel bene o nel male l’oratoria è sempre necessaria e questa poi si riassume in slogan. I nostri slogan politici sono i voti dati alle recensioni.
Come e quanto è cambiata la testata nel tempo e come pensi si trasformerà in prospettiva fra dieci anni?
Beh, c’è un “responsive” più performante da fare. Già lo hanno fatto tutti. Noi quella volta abbiamo scelto un ibrido che poi costa in termini di manutenzione. In pratica hai due piattaforme, una mobile e una web. All’inizio sembrava ottima perché potevi personalizzare tutto ma poi la gente si è abituata ai portali 3.0 o quello che sono e questo new minimal con font editorialmente uguali alla carta come qualità è un paradigma da cui difficilmente si tornerà indietro. Costa meno. E poi per cambiare layout è questione di chiamare il grafico o quasi.
Nur Al Habash (Rockit)
Rockit nasce nel 1997, quindi sono venti anni suonati di attività ormai… Il sito ha come intestazioni-tag: “Rockit, musica italiana, rock, concerti, festival, testi canzoni e baci”. Come si è evoluto nel tempo il portale e come sono cambiati i contenuti rispetto agli esordi?
Nur Al Habash: Rockit è andato online la prima volta nel 1997 e quindi quest’anno sono esattamente venti anni che viene pubblicato e letto ogni giorno. Ovviamente in tutto questo tempo ci sono stati dei cambiamenti epocali, a partire dallo stesso avvento dell’mp3: nel 1999 il sito ospitò la prima produzione discografica italiana in mp3 (si narra che i fondatori dovettero andare alla SIAE, che al tempo non aveva un regolamento in materia, a spiegare come funzionasse questo nuovo formato). Per un periodo ogni artista, nella propria pagina, poteva avere (oltre che il suo disco in streaming) uno shop dove vendere i propri album e merchandising, opzione che è stata poi abbandonata con l’emergere di piattaforme come Amazon o Bandcamp. Altro grande cambiamento fu la storica chiusura del forum e della sua community, ma nel frattempo era nato Facebook, sai com’è…
Insomma il sito, com’è ovvio che sia, si trasforma ad ogni nuovo avanzamento tecnologico che riguarda l’ascolto della musica e la lettura dei contenuti online (o almeno questo è quello che cerchiamo di fare costantemente), ma ciò che rimane centrale è il fatto che Rockit è molto più che una semplice testata giornalistica, o webzine musicale: nel suo DNA c’è il volere essere un punto di riferimento per la comunità degli amanti della musica italiana, comunità che include gli stessi musicisti. Praticamente chiunque è passato da Rockit: se cerchi bene nell’archivio, troverai gli articoli (magari un po’ acerbi) di giornalisti ora affermati, oppure i primi demo di artisti che ora riempiono i palazzetti. Io ho iniziato a scrivere saltuariamente su Rockit nel 2008, mentre nell’ottobre 2014 ne sono diventata direttrice: mi sento di dire che negli ultimi anni la testata è maturata moltissimo dal punto di vista editoriale. Si è arricchita di molti punti di vista diversi, si è “professionalizzata” e si è aperta ad altri generi musicali, ha ospitato sempre più spesso contenuti più ricercati e curati. Un piccolo esempio sono le nostre “Storie di copertina”, un formato editoriale innovativo per il web che si basa sull’interdipendenza tra testo e animazioni. Una cosa già piuttosto diffusa all’estero, ma che in campo musicale nessuno aveva ancora utilizzato in Italia. Un’altra trasformazione rispetto agli esordi riguarda la vocazione: già nel manifesto del festival del 2007, la seconda “i” di MI AMI che stava per “indipendente” è stata sostituita con “importante”. Sono almeno dieci anni che Rockit lavora per rompere quel soffitto di vetro che separa la musica conosciuta dalla maggior parte degli italiani da quella relegata ai circoli Arci, seguita da poche centinaia di estimatori. Abbiamo sempre creduto che certi artisti meritassero di essere ascoltati da migliaia di persone, abbiamo sempre cercato la massima diffusione dei progetti che noi ritenevamo validi. Insomma, quello tra “indie” e “mainstream”, tra musica “pura” e musica “commerciale” è un discorso che magari ora non è il caso di aprire, ma ti basti sapere che come redazione lo consideriamo conservatore, e per questo abbiamo lavorato in questi ultimi dieci anni per abbatterlo. Guardando a come si stanno muovendo le major e i media generalisti, guardando a come sono cambiati i gusti musicali delle persone (molto meno rinchiusi in recinti “di genere”), guardando a certi sold out inimmaginabili solo fino a poco tempo fa, direi che il tempo sta dando ragione a questo approccio.
Le vostre particolarità sono principalmente quelle di essere una piattaforma per le band, che per avere una recensione si devono registrare al sito, e che da qualche anno organizzate un festival a tema, il MI AMI. Tutto rigorosamente italiano…
Il MI AMI esiste da tredici anni, e credo sia un festival che abbia davvero fatto la differenza nella storia recente della musica italiana. Ogni anno Stefano Bottura e Carlo Pastore (assieme ad una squadra numerosa di cui faccio parte) lavorano con passione e impegno per far convergere in una sola line-up tantissimi obiettivi: il MI AMI deve essere una fotografia fedele del meglio della musica italiana dell’anno corrente, ma allo stesso tempo deve dare spazio a degli esordienti totali sui quali scommettiamo per gli anni a venire (la lista di artisti ora famosissimi che hanno suonato la prima volta al nostro festival è parecchio lunga). Deve rispecchiare quanti più generi musicali possibili (c’è sempre del rock, pop, folk, rap, elettronica, sperimentale, etc.) e al contempo deve riuscire ad amalgamarli in maniera coerente (Patty Pravo e Noyz Narcos nella stessa line-up? Lo abbiamo fatto nel 2013). Infine deve essere una festa gigante, dove tutti possano divertirsi, rilassarsi, scoprire nuova musica, incontrare vecchi amici e nuove fiamme.
Prima dicevo che è un festival che ha fatto davvero la differenza perché questa attenzione ai limiti dell’ossessivo sulla musica italiana, fino a pochi anni fa, era piuttosto rara. Poi, per fortuna, i festival del genere si sono moltiplicati in tutta Italia, creando un “effetto cascata” che secondo me ha fatto solo che bene alla gente e agli artisti.
In ultimo, il MI AMI è a tutti gli effetti l’appuntamento non-ufficiale di tutte le persone che lavorano nell’industria musicale italiana, e anche questo è un bel valore aggiunto rispetto a tutti gli altri festival.
Altra caratteristica mi pare sia quella di rivolgersi quasi esclusivamente a un’utenza particolarmente giovane, o sbaglio? Qual è il vostro lettore-tipo?
Sbagli. L’utenza “particolarmente giovane” in questo momento storico non è esattamente interessata al rock, o al leggere di musica. Però non abbiamo nemmeno una readership anziana, ecco. La media d’età dei nostri lettori nel 2016 è stata questa: 25-43 anni 37% (in calo del 20% rispetto al 2015), 18-24 anni 26% (in crescita del 68% rispetto al 2015).
Cerchiamo di mantenerci sempre “freschi” anche accogliendo in redazione collaboratori giovanissimi, cerchiamo di dare spazio sempre agli artisti nuovi ed emergenti, anche se ovviamente non ricevono altrettanta attenzione dai lettori, che com’è ovvio sono più disposti a leggere e ascoltare cose che già conoscono e apprezzano.
Vi differenziate dalle altre webzine per avere quindi un bacino più circoscritto rispetto alla concorrenza, il fatto di occuparvi solo di artisti e gruppi di casa nostra… Ho motivo di credere che col passare degli anni siano aumentate sia le band, sia i lettori, soprattutto le prime… e in che percentuale?
I lettori sono molto aumentati (per fortuna). Non credo si possa fare invece un discorso simile sugli artisti: guardando alle statistiche, il numero di iscrizioni a Rockit si è sempre mantenuto piuttosto costante. Quella che è cambiata probabilmente è l’attenzione da parte del pubblico, che ti dà la sensazione di una scena “affollata”. Trovo che negli ultimi anni ci sia molta più curiosità, molta più apertura rispetto al passato. Forse perché, come dicevo prima, ci sono molte meno barriere e preconcetti riguardo al genere, ai linguaggi, ai canali utilizzati.
Ghali è fan di Calcutta. Calcutta va ospite ai concerti di Francesca Michielin. Le canzoni di Michielin vengono scritte da Federica Abbate, ventenne che però scrive anche per Marracash. La stessa “promiscuità” c’è anche tra gli ascoltatori, specialmente i più giovani, e il risultato è che c’è più gente che ascolta più musica di tutti i generi.
Se non ho inteso male Rockit ha un editore, immagino che lo staff abbia un inquadramento contrattuale, etc. Come pensi che si possano evolvere le webzine nell’immediato futuro? Ci vorranno ancora molti anni secondo te per poter registrare una crescita economica tale da permettere di poter pagare tutti i collaboratori, o è la formula stessa di questo tipo di iniziative editoriali ad esigere quanti più collaboratori possibili?
L’editore di Rockit è Better Days, un’azienda fondata dallo stesso team originario di Rockit. Better Days è nata perché, negli anni, è stato sempre più evidente che per rendere sostenibile il sito, il festival e lo stipendio di tutte le persone che ci lavorano, fosse necessario ampliare le attività. Nello specifico, Better Days è un’agenzia creativa (alla quale lavora giornalmente anche lo staff di Rockit) che si occupa di web design, creatività, social media, video, pubblicità, eventi, app e moltissime altre cose diverse. Siamo un gruppo di professionisti molto eterogeneo che comprende grafici, copywriter, programmatori, fotografi, videomaker e giornalisti. Di webzine, anche ben fatte, che nascono per passione e in maniera amatoriale ce ne sono un’infinità (anche io molti anni fa ne fondai una che si chiamava Frigopop), ed è bello e giusto che ci siano. Se qualcuna di queste ha però l’ambizione di “fare sul serio” è indispensabile che preveda un business-plan, che per forza di cose non può limitarsi alla sola attività editoriale online. Nel 2017 è ormai chiaro che con i banner o gli advertorial non ci si possono pagare gli stipendi, specialmente in Italia. Finché le testate (o le aspiranti tali) non si allineeranno a questa realtà dei fatti e cercheranno di sperimentare in questa direzione trovando nuove soluzioni commerciali, continueranno ad esserci molti appassionati di musica che scrivono per passione la sera dopo il lavoro “vero”.
Per quanto riguarda i contenuti, la parte critica, il testo insomma… ritieni che possano rimanere decisivi per le sorti del sito o man mano che il tempo passa acquisteranno sempre più importanza e spazio gli streaming e le anteprime, quindi in pratica il solo ascolto?
A dire il vero è l’esatto opposto: sono gli streaming e le anteprime ad avere sempre meno importanza rispetto alla parte scritta di un sito. Gli artisti lanciano i nuovi video dalla loro pagina Facebook, o pubblicano i singoli in anteprima direttamente su Bandcamp o Spotify (che sempre più sta spostando il suo focus sulla curatela editoriale, “togliendo” spazio alle testate musicali). Le anteprime sui siti hanno cominciato ad avere sempre meno peso anche all’estero, dove sopravvivono solo sui siti più piccoli e di nicchia. Quanto tempo è che non vedi un’esclusiva su Pitchfork, per dire?
L’unico sito autorevole che continua ad avere dei dischi interi in ascolto in anticipo rispetto alla data di pubblicazione è NPR, il sito della radio pubblica americana. In Italia invece c’è Rockit, che ogni settimana presenta uno o due dischi in ascolto prima della loro pubblicazione ufficiale, e continuerà a farlo nonostante la concorrenza dei servizi di streaming. Se c’è un elemento che rischia di cannibalizzare la parte critica, i contenuti più curati, sono invece le news “usa e getta”, ovvero la bulimia di notizie alla quale ormai siamo tutti piuttosto abituati. E questo per due motivi: il primo è che la maniera più semplice di far viaggiare un sito su una quantità soddisfacente di visite giornaliere è pubblicare molti contenuti. Di media uno all’ora, o anche di più. È evidente che con questi ritmi anche la redazione più numerosa e talentuosa fa fatica a creare articoli approfonditi e originali. La maggior parte delle volte quindi la parte di attualità e notizie finisce per essere molto più voluminosa di quella dedicata ai contenuti più curati.
Il secondo motivo invece è che sono gli stessi lettori, dati alla mano, a preferire la curiosità, la notizia sfiziosa della quale magari guardano solo le immagini, oppure direttamente il gossip e la polemica del giorno.
È un dibattito di cui si sta iniziando a leggere in giro, specialmente sulle testate specializzate: non è forse il caso di tornare a pubblicare solo due articoli al giorno, ma fatti davvero bene, invece che venti di dubbio interesse culturale? Quel che è certo è che pochi al momento (sia in Italia che all’estero) si stanno avventurando per questa strada incerta senza avere dietro una copertura finanziaria più che solida e non strettamente dipendente dal traffico.
Quanto è importante e quanto risulta efficace la presenza sui social? In generale ho dei dubbi in proposito alla reale efficacia dell’interazione tra lettori effettivi, quelli che davvero leggono i contenuti, e i post del sito sui social network.
I tuoi dubbi in parte sono fondati. Avere una pagina Facebook da un milione di fan non vuol dire assolutamente che un milione di persone legga i tuoi contenuti o clicchi sui link che gli proponi giornalmente, anche se magari ci sono molti like e commenti sui singoli post. Ci sono testate musicali italiane da centinaia di migliaia di fan che però hanno un traffico molto basso, o al contrario testate musicali i cui post su Facebook racimolano un paio di like che però hanno un numero di visite giornaliere molto importante. Diciamo però che se lavori bene riesci ad ottenere buoni risultati da uno strumento come Facebook. L’importante, per la salute di una testata online (musicale o meno), è che non sia l’unico strumento per portare i lettori sul sito: le aziende e le testate sono l’ultima delle preoccupazioni di Zuckerberg, tanto che le penalizza apertamente a favore dei contenuti generati dagli utenti. In più non possiamo sapere se tra cinque anni Facebook avrà le stesse caratteristiche di oggi, o se avrà la stessa importanza nella fruizione dei contenuti testuali online. È rischioso far dipendere un’azienda intera su un social network. Per questo è fondamentale creare delle basi più solide e arrivare ai lettori anche e soprattutto via mail, o tramite i motori di ricerca, o tramite aggregatori come Flipboard che stanno prendendo sempre più piede tra le abitudini dei lettori italiani.
Domanda da un milione di dollari. Un gruppo editoriale più grande vuole acquistare Rockit. Cosa fate in questo caso, accettate?
Lo dovresti chiedere a Stefano Bottura, il CEO di Better Days!
Luca Pessina (Metalitalia)
Metalitalia ha un seguito davvero importante, d’altronde una musica come quella metal qui in Italia mi pare abbia sempre goduto di buona salute. Quando è nata la webzine e quanto è cambiata nel tempo?
Luca Pessina: Non sono molto d’accordo sul fatto che in Italia il metal goda di buona salute: la scena e il mercato sono piccoli, il pubblico tende a essere molto ottuso e sedentario, i dischi si vendono poco e la maggior parte dei concerti con protagonisti gruppi che non siano i soliti noti registra numeri bassi a livello di affluenza. Per intenderci, penso che se fossi il caporedattore dell’equivalente di Metalitalia.com in Germania o Inghilterra, oggi potrei fare a meno di avere un lavoro “normale”, invece, pur essendo forse la testata più seguita nel campo, il sito resta un semplice hobby.
Detto questo, Metalitalia nasce nel 2001 come sito dell’omonima chat su canale IRC (i più giovani si affidino a Google), che all’epoca contava un grosso numero di utenti attivi che chiacchieravano di metal e affini fino a tarda notte. Inizialmente il sito ospitava i profili dei suddetti utenti (nome, città, gusti, etc), poi si è deciso di dedicare una sezione a recensioni di dischi e concerti. Quando la cosa ha iniziato a farsi “seria” – ovvero quando contenuti di questo tipo hanno iniziato ad essere pubblicati con regolarità e tale attività ha generato un po’ di interesse da parte di band e case discografiche del settore – si è deciso di provare ad allestire una vera e propria redazione e di seguire con più costanza questo aspetto del sito. Con il passare del tempo Metalitalia è così diventata una realtà slegata dalla chat, assumendo prima i connotati di webzine per poi diventare un portale più “professionale” che oggi è decisamente popolare fra gli appassionati di metal e affini in Italia. In tutti questi anni la redazione e la grafica del sito sono cambiati più volte, ma lo spirito alla base è quello di sempre: scrivere di ciò che amiamo e contribuire allo sviluppo del movimento in Italia senza preconcetti e compromessi.
Vedo che al sito ne è associato un altro da dove si possono acquistare dischi e merchandising. Organizzate pure un festival da qualche anno a questa parte. Da dove nasce l’esigenza di diversificare l’offerta? Mettiamola cosi, ma è per capirci, perdona la banale lettura…
Nulla di ciò che vedi sul sito è direttamente associato a Metalitalia.com. Si tratta semplicemente di spazi pubblicitari che vendiamo per avere i fondi necessari per sostenere le spese del sito e – da qualche anno a questa parte – per finanziare il festival. Quest’ultimo è nato come esperimento ormai sei anni fa ed è presto diventato un appuntamento fisso sia per noi che per tanti appassionati. In passato avevamo organizzato piccoli eventi e avevamo anche provato a lanciare una web radio: si può dire che il festival sia il risultato di questa nostra continua voglia di sperimentare e di “fare di più” per la nostra scena. Non ti nascondo che può essere molto stressante cimentarsi in questo tipo di iniziative, però alla passione non si comanda. Sono fortunato nel poter contare su un partner come Alessandro Corno, che gestisce ottimamente gran parte dell’organizzazione del festival da parte nostra, e sull’esperienza dei ragazzi di Eagle Booking e del Live Club di Trezzo, che sinora ci hanno sempre assistito nella gestione dell’evento. Dopo un paio di edizioni di assestamento, il Metalitalia.com Festival ha trovato la sua dimensione e gli ultimi anni ci hanno portato grandi soddisfazioni. A breve potremo finalmente annunciare i dettagli dell’edizione 2017.
Potete contare su uno staff numeroso e su una grossa quantità di contenuti. È un lavoro enorme… come riuscite a gestirlo? ci guadagnate pure qualcosa? Come vi vedete ad esempio rispetto alle riviste cartacee del vostro campo d’azione?
Esatto, è un lavoro enorme. Come riusciamo a gestirlo? Io dormo cinque ore a notte e al contempo posso contare su una redazione di grandi appassionati, i quali fanno davvero il massimo per conciliare gli impegni del sito con quelli lavorativi e privati. Sono fortunato ad avere accanto tante persone così disponibili. Come dicevo, Metalitalia è partito come semplice sito di una chat, non immaginavo che sarebbe diventato un impegno così grande e una realtà tanto riconosciuta. Di certo uno dei nostri principali punti di forza è la costanza: siamo sempre andati avanti per la nostra strada, scrivendo, scrivendo e scrivendo, e alla fine tale perseveranza ha pagato. No, non ci si guadagna, perché appunto abbiamo sempre deciso di investire le entrate in altre iniziative. Questo ci dà modo di gestire il portale in totale serenità e senza scendere a compromessi: non siamo ossessionati dai click e non dobbiamo niente a nessuno. Intervistiamo chi ci pare, diamo i voti che vogliamo, non subiamo alcun tipo di pressione da terzi. Metalitalia.com, in sostanza, va avanti solo ed esclusivamente per passione. Dopo tutto, il portale dà sì spazio ad ogni genere di metal e hard rock, trattando spesso e volentieri artisti decisamente mainstream, ma io provengo dalla vecchia scena death metal e grind, quindi ho sempre a cuore determinati valori. Tanti anni fa facevamo una colletta interna per racimolare i soldi per il server; oggi per fortuna riusciamo a vendere banner e sfondi e tale problema non si pone più, ma l’attitudine non è cambiata. Con le entrate copriamo le spese (dai server ai biglietti per eventi a cui vogliamo presenziare) e organizziamo il festival. Se davvero provassimo a dividerci quanto resta, o anche tutto, saremmo comunque lontani anni luce da uno stipendio minimo di una persona adulta, quindi perché stressarsi? Tutti noi abbiamo un lavoro “normale” e vediamo Metalitalia come il nostro bel passatempo. Un passatempo che richiede un grande impegno e che a volte occupa intere giornate, ma pur sempre qualcosa che uno fa per passione.
Per quanto riguarda la tua ultima domanda, non ho un’idea precisa sulle riviste cartacee di oggi, soprattutto italiane. Ho smesso di leggerle anni fa, più o meno quando ho scelto di non collaborare più con loro (ho scritto per anni per numerose testate). Credo che, almeno in Italia, debbano cercare di aggiornarsi e di staccarsi da modelli antiquati come le pagine per le news (sono già vecchie di settimane quando il magazine arriva in edicola) e le interviste e le recensioni poco approfondite. Oggi il cartaceo dovrebbe puntare su articoli diversi, visto che il resto è facilmente e gratuitamente disponibile online.
Per tradizione il lettore di musiche estreme è piuttosto esigente e spesso dall’opinione facile e schietta. Quanto è cambiato il suo ruolo negli anni?
Per noi non è cambiato più di tanto: alcuni anni fa abbiamo aperto i commenti agli articoli, ma la risposta è stata al di sotto delle aspettative, a livello di numeri. La gente legge tanto, ma i commenti vengono lasciati sempre sotto gli articoli delle solite band (Metallica, Iron Maiden, Dream Theater, etc.), dove arrivano cosiddetti troll e lettori occasionali. Il resto viene letto “silenziosamente”, nonostante ci siano certamente lettori che hanno a cuore band più di nicchia e che non mancano di farci sapere la loro opinione sia sul disco in sé, sia su quanto da noi scritto. Come dicevo comunque, Metalitalia è ancora in vita dopo tutto questo tempo perché a noi piace scrivere di musica. Il fatto che vi siano cento o zero commenti alla lunga è abbastanza ininfluente, io e altri continueremmo a scrivere anche a fronte di bassi livelli di riscontro.
Vivi a Londra. Come vedi la musica metal in Gran Bretagna, comunque in Nord Europa, rispetto a quella del nostro Paese?
La Gran Bretagna può vantare da sempre un pubblico più vasto per questo genere di musica. Più vasto e ricettivo per le novità. C’è il pienone per i soliti noti, ma anche band underground possono contare quasi subito su un seguito non da poco. Di recente sono andato a vedere i Blood Incantation, una death metal band del Colorado con solo un paio di ep e un album all’attivo che ha riscosso un ottimo successo underground, e il locale ha registrato il sold out con quasi duecento persone. Non male per una realtà così piccola e senza promozione. Non a caso, se una band statunitense arriva per la prima volta in Europa, di solito si esibisce prima qui e poi solo successivamente negli altri Paesi. Uno dei principali motivi per cui mi sono trasferito qui ormai tanti anni fa è proprio l’attivissimo circuito live. Ero solito venire in giornata solo per assistere ad un concerto e rientrare a Milano il mattino dopo (quando Ryanair costava ancora pochissimo); dopo una decina di blitz di questo tipo in un anno ho pensato che fosse il caso di trasferirsi in pianta stabile. In generale, credo che in Italia l’ascoltatore medio sia un po’ pigro e poco aperto alle novità. Lo vediamo anche quando mettiamo come “top album” un disco di un gruppo poco noto: le letture saranno sempre inferiori a quelle di una recensione di un album di una formazione nota, magari in un angolo della home. Non si arriva nemmeno a pensare: “Se è Top Album magari è interessante: leggiamo di che si tratta”. Il fan medio italiano impiega tanto tempo ad accorgersi di cosa sta avvenendo attorno a lui, anche con un mezzo come Internet, che ha abbattuto ogni barriera. Ricordo quando da ragazzino andavo ai festival tedeschi e vedevo gruppi all’epoca relativamente giovani come gli Amon Amarth suonare davanti a decine di migliaia di persone; poi gli stessi Amon Amarth arrivavano in Italia qualche mese dopo e si esibivano davanti a quaranta paganti all’Indian’s Saloon di Bresso (MI). Oggi quella stessa band fa sold out in locali grossi anche nello Stivale, ma ci è voluto più di un decennio affinché il pubblico nostrano si accorgesse di loro. Sto facendo un esempio, non sono nemmeno un grande fan degli Amon Amarth…
Avete dei modelli editoriali di riferimento, sia italiani che stranieri?
Direi l’inglese Terrorizer magazine di una decina di anni fa (per cui ho anche scritto) e lo statunitense Decibel Magazine. Oggi Terrorizer è decaduto, ma all’epoca era davvero una realtà all’avanguardia, sia per temi trattati che per qualità della scrittura. Credo che Decibel abbia raccolto il suo testimone. Parlo di riviste a 360 gradi, ma con un occhio di riguardo per l’underground e per i gruppi e gli eventi che davvero hanno qualcosa da dire. Noi cerchiamo di fare lo stesso: possiamo intervistare i Five Finger Death Punch e venire incontro alla fascia di lettori più mainstream, ma poi siamo ben felici di mettere Top Album una death metal band underground e promuoverla il più possibile. Abbiamo una redazione dai gusti ampi e tutti hanno modo di esprimersi.
La parte social vi soddisfa? Ho notato che spesso grandi siti con tanti “like” in realtà sembrano avere in percentuale poca interazione in termini di condivisioni e di gradimento…
Direi che non ci possiamo lamentare: abbiamo oltre 50.000 follower su Facebook al momento e mi sembra che l’interazione sia buona o comunque nella media. Ricollegandomi al discorso che facevo prima, i nomi che generano interazione sono sempre i soliti, ma non ce ne preoccupiamo più di tanto. In Italia è così da sempre.
Come vi vedete fra dieci anni? Un sito web come il vostro punterà sempre ai contenuti, alle recensioni e alle interviste, etc., oppure pensate che il futuro sia appannaggio di solo ascolto in streaming e contenuti ultra-brevi?
Questa è una domanda complicata. Ogni anno diventa sempre più difficile mandare avanti un sito di queste dimensioni: buona parte della redazione oggi ha famiglia/figli e il tempo libero a disposizione è sempre meno. I tentativi di fare entrare forze fresche – magari universitari che non hanno sempre voglia di andare a lezione, come lo sono stato io ad un certo punto! – non sempre sono andati a buon fine, quindi il futuro è un grande punto interrogativo. Credo che non cambieremo radicalmente il nostro approccio, ma al contempo penso che ad un certo punto sarà necessario diminuire il numero di contenuti o valutare altre tipologie di articolo. Di certo non mi ci vedo a pubblicare solo streaming o trafiletti: amo ascoltare dischi e amo recensirli, così come ritengo importanti approfondimenti come le interviste. Se poi un giorno arriveremo al punto di non potere fare più nulla di tutto questo, mantenendo determinati standard qualitativi, credo che verrà valutata l’opzione di chiudere tutto. Per adesso, comunque, non pensiamo a simili eventualità. Siamo ancora relativamente giovani.
Gianluigi Peccerillo (Dance Like Shaquille O’Neal)
Quando e da quali esigenze nasce DLSO? Quanti siete a gestire il sito e soprattutto, come mai avete scelto questa intestazione cosi particolare?
Gianluigi Peccerillo: DLSO nasce nel 2009. Semplicemente, otto anni fa nessuno parlava di quello che ci piaceva ascoltare, quindi abbiamo fatto da noi. Gestire, una sola persona (per ora). Scrivere, proporre, supportare… tante. Sono più o meno tutte indicate nel sito. Le riconosci IRL perché sono belle e positive. Il nome nasce dalla voglia di fare qualcosa in maniera diversa dagli altri, come ballare quando sei alto 216 cm e pesi più di 140 kg.
Non ho potuto non notare che DLSO ha un’impronta parecchio internazionale nei contenuti, anche l’impostazione grafica degli articoli sembra avere come modelli di riferimento grossi web-magazine come Pitchfork e Fact Magazine. È cosi o non ci ho capito nulla?
È così, anche se fa strano sentir parlare di impronta internazionale, come se invece quella italiana dovesse essere per forza di cose qualcosa di diverso. Siamo cittadini di Internet.
Ci piace molto curare anche la parte grafica – che, per inciso, mi piace pensare come caratteristica e quindi un po’ unica, non abbiamo dei riferimenti da questo punto di vista, al massimo sono gli altri che si rifanno a DLSO – sia nelle rubriche che nel tema del sito 😊. Se posso citarti qualcuno che ha capito l’importanza della parte grafica, oltre a dei contenuti incredibili, ovviamente quello è The Fader.
Quanto è importante per voi la parte “social” del tutto? Siete soddisfatti delle interazioni coi vostri lettori? E come credi si svilupperanno in un futuro non troppo lontano i siti musicali? Sempre più solo link all’ascolto e poche righe di testo? E più inserzioni pubblicitarie possibili?
Mettiamola così: è importante ciò che hai da dire, ma è importante anche come lo dici. Quindi sì, la parte social è importante. È importante essere presenti su tutti i social? No. I nostri lettori ci leggono tanto e ci likano il giusto, altrimenti non sarebbero lettori, ma likatori. Battuta a parte, per continuare con la risposta alle tue molteplici domande, il modello di “mp3 – blog” è già morto. Non puoi pensare di andare avanti coi link all’ascolto. Esiste Facebook, non puoi competere con Facebook. Devi offrire qualcosa di diverso, che dia un motivo all’utente X per andare sul tuo sito.
Al sito associate anche uno store dal quale si possono acquistare capi d’abbigliamento e scarpe. È un vostro sponsor, una vostra idea?
Ti riferisci a unotrestore.com, che è uno degli sponsor di DLSO.
Rispetto alla concorrenza, voi come vi vedete? Vi occupate principalmente di hip hop, elettronica, indie-rock. Sentite di avere delle peculiarità che altri siti musicali non hanno?
Non esiste un concorrente diretto di DLSO. O sono troppo generalisti, o parlano solo di musica italiana o di elettronica da un punto di vista diverso dal nostro. Sono davvero poche le volte in cui incrociamo gli argomenti con altri siti. Questa è una delle nostre particolarità e la “fortuna” per chi vuole leggere qualcosa in Italia. Può andare a pescare da alcune, poche, parti e farsi un’idea completa di cosa succede senza andare a leggere per forza siti in inglese.
Secondo te si riuscirà prima o poi a vivere del lavoro che si svolge per un web-magazine o rimarrà soltanto una chimera o un privilegio per pochi?