LE SCIMMIE, Colostrum
Secondo album per la band di Vasto, dopo i quattro anni di silenzio successivi a Dromomania. Anni in cui il progetto era stato messo in pausa dal suo fondatore, il chitarrista Angelo Mirolli, prima di ripartire con un cambio di formazione che vede l’ingresso del nuovo batterista Giani Manariti e l’inclusione di un terzo elemento, il “rumorista” Simone D’Annunzio, già responsabile di alcuni titoli a suo nome in area noise-ambient. In questo Colostrum troviamo quattro brani per poco più di trenta minuti di doom metal strumentale nel segno dei maestri Ufomammut, in qualche modo assimilabile a quanto proposto, per rimanere sempre nei confini nazionali, dai Wisdoom.
L’agilità della formazione si riflette in una musica essenziale e diretta, basata sull’impatto e su di una certa urgenza primordiale più che su chissà quali complicazioni strutturali. Molto benefico poi è l’apporto effettistico di D’Annunzio, il quale interviene sui brani in modo molto interessante, senza prevaricare né dare l’impressione di essere un corpo estraneo, ma anzi trovando una buona integrazione. La traccia d’apertura, che dà il titolo al lavoro, è forse un po’ troppo lunga (quattordici minuti sono tanti, soprattutto se per la prima metà succede pochino), ma serve a far entrare l’ascoltatore nel clima giusto, scaricandogli cioè addosso un muro di suono davvero imponente, lento, potentissimo, pachidermico. Va dato atto infatti alle Scimmie di aver guadagnato enormemente in tonnellaggio, e se è vero che ci mettono un po’ a mettersi in moto, poi diventa difficile arrestarne la corsa, come ben esemplificato da “Crotalus Horridus” o “Helleborus”, che permettono ai tre di dispiegare la loro furia in modo molto convincente.
In definitiva un album che merita attenzione, forse di transizione verso la definizione di un’identità propria, ma di certo si tratta di un passo (o anche due) compiuto nella giusta direzione.