LAWRENCE ENGLISH, Wilderness Of Mirrors
“Wilderness of mirrors” (desolazione di specchi? Foresta di specchi? In rete ho trovato entrambe, ma sarei per la seconda) proviene dalla poesia “Gerontion” di Eliot ed è stata riutilizzata da James Jesus Angleton (un capo della CIA ai tempi della Guerra Fredda) come metafora del suo mestiere, nel quale non si sa mai chi hai davanti, se ti sta dicendo la verità e perché eventualmente te la sta dicendo. Nel caso del disco di Lawrence English – vale lo stesso discorso per i lavori di Pietro Riparbelli – il suono di partenza (un field recording, ma anche uno strumento), trasfigurato digitalmente, può essere scambiato per qualcosa d’altro. Questo significa giocare sulla percezione e in qualche modo fabbricare per chi ascolta un luogo immaginario (Imaginary Country, come in Tim Hecker), in parte ingannandolo, in parte facendogli capire che è tutto troppo sfocato e vago per non essere uno strano sogno. L’uomo, poi, ha terminato quest’album dopo aver collaborato con Ben Frost ad A U R O R A, quindi ecco che, rispetto al ricordo che si può aver di lui, il suo impatto – talvolta anche percussivo – ora è a tratti devastante. Infatti, al di là di grosse elucubrazioni, Wilderness Of Mirrors può essere visto “semplicemente” come un disco ambient/noise scuro – allo stesso tempo pericoloso e seducente – nel quale smarrirsi, fluttuando o precipitando a seconda dei casi. È un tipo di sound – alla fine della fiera – al quale è abituato chi in questi anni ha deciso di approfondire determinati generi “sperimentali”, ma rimane un bel viaggio.