LAWRENCE ENGLISH, A Mirror Holds The Sky
L’annullamento dell’artista/ascoltatore e l’immersione nel magma della realtà sono i temi cari ad ogni field-recordist che si rispetti. Perché infliggersi la frustrazione della composizione melodica (o ritmica) quando il mondo acustico percepibile “fuori” dall’umano è già così ricco di stimoli? A volte il sospetto che la musica sia solo un’espressione egocentrica della nostra specie, come se non potesse esistere altra perfetta e artistica manifestazione degna d’ascolto, diventa quasi una certezza. Forse è proprio l’universo sonoro il campo dove l’essere umano perde, drasticamente, il suo posto all’apice della piramide, dove le relazioni ecologiche e non gerarchiche vengono ristabilite in modo netto.
Un disco come A Mirror Holds The Sky parte proprio da tutto questo, per sottolineare la sproporzione fra noi e il caos acustico per antonomasia, la foresta pluviale. Nel 2021, oltre a Lawrence English, pure Luca Forcucci, con il suo De Rerum Natura, si è interrogato sugli stessi temi: entrambi, inoltre, hanno sfruttato la residenza artistica (sarebbe meglio dire laboratorio sonoro) Mamori Art Lab coordinata da Francisco López, celeberrimo sound-artist spagnolo. A differenza dell’artista italo-svizzero, che nel suo lavoro mischia antropico e naturale, English si limita alla registrazione pura, senza intervento esterno. C’è una perfetta sovrapposizione fra ciò che viene ascoltato dal compositore australiano e ciò che possiamo ascoltare noi, a migliaia di kilometri e anni (le oltre cinquanta ore di registrazione originale risalgono in realtà al 2008) di distanza. Tecnicamente il disco è ineccepibile, non troviamo mai una sbavatura o un fruscio di distorsione, errori tecnici abbastanza comuni durante le attività di field-recording. Il materiale è diviso in sette momenti senza apparente soluzione di continuità. Ogni brano indaga una tematica, un luogo, una tavolozza di eventi sonori: “The Island”, per esempio, è infestata dal verso delle rane che, nel passaggio alla successiva “The Shore”, progressivamente scompare per lasciare il posto al lento scorrere della corrente. Nominare le tracce con questa specificità “geografica” aumenta la piacevole sensazione di immersività del disco, magnificando lo sfasamento spazio-temporale che ogni registrazione sul campo inevitabilmente produce. L’unico brano a non seguire questa logica è la conclusiva “A Mirror Holds The Sky” che, nei sui oltre 36 minuti, racchiude sinteticamente il materiale precedente, offrendo una carrellata dei vari mondi sonori già presentati.
English, essendo australiano ed avendo vissuto per molto tempo in ambienti tropicali, non è nuovo a questa realtà acustica. Ciò che ci trasmette non è tanto il suono in sé – a tratti ci si domanda perché sia necessario ascoltare un disco del genere al di fuori degli ambienti della sound-art – ma la prospettiva, le dinamiche ecologiche fra ascoltatore-artista e ciò in cui è costantemente immerso, ciò di cui fa parte. La foresta amazzonica è formata, citando direttamente le sue parole, “da centinaia di migliaia di narrative che suonano contemporaneamente, le cui iterazioni fluiscono assieme in una perenne cascata di partenze e arrivi, fertilità e decadenza” e riflettere su questo ci aiuta, ancora una volta, a nutrire quella consapevolezza dell’ascolto, e anche del rispetto, che il Field Recording ci dona in ogni sua manifestazione.