LAURA AGNUSDEI, Flowers Are Blooming In Antarctica
Se la natura già mutava forma in Laurisilva del 2019, cioè il vero e proprio esordio da solista di Laura Agnusdei, compositrice armata di sax tenore tra i migliori musicisti in fervida attività alle nostre latitudini e non solo, in Flowers Are Blooming In Antarctica ci troviamo dinanzi a un autentico –pardon per l’ossimoro – giardino surrealista, quasi in stile Leonora Carrington, organizzato da un’ingegneristica mente spaziale, tra scrittura, improvvisazione e successiva effettistica. Ogni organismo-brano va a popolare un biosistema poco definibile e quindi splendidamente avventuroso, dove convergono retaggi di black music, exotica futuristica, avant-elettronica e fr(e)eak jazz. Il titolo, con i fiori che sbocciano al gelo, là dove non dovrebbero in teoria azzardarsi neppure a fare capolino, fa pensare tanto alla caparbietà di note che se ne infischiano appunto di apparire in spiazzanti modalità magiche, quanto al riscaldamento globale che getta ponti con l’ormai ineluttabile tema dell’ecologia.
Paesaggi che si moltiplicano, generandosi l’uno dall’altro: Flowers Are Blooming In Antarctica fa parte della prima uscita del progetto Opale, nato dalla collaborazione tra Maple Death Records, l’etichetta di Jonathan Clancy assieme al quale Agnusdei ha suonato di recente anche dal vivo, e Canicola Edizioni. Ogni uscita di Opale sancirà la produzione parallela di un vinile e un volume illustrato. A Flowers Are Blooming In Antarctica, nello specifico, si abbina l’albo di Daniele Castellano, che ha rielaborato in disegno le creazioni di Agnusdei.
Ai ghiacciai il clima è post-tropicale, si osserva l’aurora boreale sorseggiando acqua di cocco. Visualizziamo i mondi sommersi della fantascienza (non più) distopica di J. G. Ballard e la botanica-zoologia alternativa del leggendario Codex Seraphinianus di Luigi Serafini, artisti entrambi espressamente nominati tra le principali fonti di ispirazione a livello di immaginario. Fronteggiamo strati di suono, ottenuti per conto proprio o in compagnia di altri strumentisti, ardui da decifrare, catene di input in libertà che potrebbero fondere i geni tutelari di Herbie Hancock, Jon Hassell e Miles Davis. Lo shaman blues sperimentale di “Ittiolalia”, con campionamenti psichedelici, è solo la prima tappa di un’esplorazione turbolenta eppure pacificante. Il noir-synth sonnacquoso di “Cuttlefish REM Phase” introduce al dark groove della marziale “The Drowned World”, con fasci di fiati post-apocalittici a rampicare dalle paludi in su, mentre “P.P.R.N. (Physarium Polycephalum Rail Network)” sguscia e saetta a destra e a manca, ribelle e irresistibile anguillina space-funk. Completano il quadro le bolle calde e appiccicose in “Oasi Bar”, le eco di noi marziani dalle sciabolanti spiagge bianche di “Solvay Beach” e gli influssi dall’Asia sudorientale della signorile “Emperor Penguin Lullaby”, ma è “Are We Dinos” – con le sue domande sull’estinzione poste a esimi esperti in età dell’infanzia – a evidenziare lo spirito ludico con cui intraprendere questo stupefacente safari su un altro pianeta. Triceratopo!