L’arte della discordanza al Festival MOFO, 18-22/1/2018
Hobart, Museum of Old and New Art e altre venue. Le foto provengono da qui.
I ritmi vivaci dell’Oud in coppia col violoncello. La lingua araba che si eleva melodiosa sopra le cime degli alberi, sospinta dalla musica elettronica. Canzoni nei molti linguaggi australiani: il Kunwinjku della Terra di Arnhem, il Pitjantjatjara delle APY Lands e il Mudburra di Elliott. Le arie del tenore Andrew Goodwin accanto a un rave. Una tempesta di prog rock canadese seguita da un fragoroso finale black metal norvegese.
Tutto questo al MOFO, uno showcase lungo un weekend, la cui nona edizione si è svolta a Hobart, città principale dell’isola più a Sud dell’Australia, prima che inizi il suo trasloco a Launceston per il 2019. Più di cento performance di artisti internazionali e locali quest’anno, e per l’ultima volta sui vari palchi del Museum of Old and New Art, sia all’interno che all’esterno, oltre che in molte venue di Hobart. Il party dance notturno Faux Mo si è tenuto al Mac2, un terminale del porto di Hobart convertito in dancefloor.
Il tema del MOFO di quest’anno era la musica di protesta. In molti, tra gruppi e artisti, hanno mostrato come minimo un’inclinazione a disobbedire, e alcuni sono finiti in esilio. Quest’inclinazione è stata espressa in modi differenti, tramite il potere della voce, ma anche attraverso uno sforzo di lavorare – musicalmente e in generale – con nozioni di discordanza, col mettere insieme parole e suoni che di solito non combaciano.
Col loro pastiche unico di video art e musica, tecniche tradizionali e composizione contemporanea, i Filastine And Nova hanno attirato l’attenzione sul ruolo dei confini musicali, tecnologici e politici. Si tratta di un riplasmare le loro abilità originarie, dato che la formazione in canto giavanese di Nova si combina coi ritmi sintetici disarmonici di Filastine. Ospite il ballerino giavanese Tutut Tuty, la loro performance musicale era in coreografia con dei panorami video art che evocavano la globalizzazione, il suo controllo del movimento e i suoi checkpoint, e andava oltre lo spettro della world music, verso qualcosa di quasi extraterrestre. Quest’alterità appartiene anche alla voce di Nova, dato che lei applica diverse tecniche tradizionali del canto giavanese, incluso il variare registri nell’arco di una singola nota, mantenendo la stessa intensità sino alla fine del verso, provocando il pubblico per mezzo della polifonia e della diversità, facendo immaginare qualcosa che sta al di là di quei confini per la cui conservazione lavoriamo così duramente.
Per ricreare dal vivo il loro ultimo album Luciferian Towers, i Godspeed You! Black Emperor si sono portati dietro il loro ensemble al completo, che va da strumenti classici come corno francese, violoncello, contrabbasso e percussioni fino a cornamuse e fisarmoniche assieme a chitarre elettriche e tastiere, il che ha prodotto un effetto musicale come di alta marea, pur se l’insieme possedeva una sottile complessità. Questo loro build-up si è suddiviso gradualmente in ampie ondate di ritmo, con tutto il pubblico stregato.
La Black Rock Band, proveniente dalla parte occidentale della Terra di Arnhem nel Territorio del Nord, ha iniziato con canti e balli e didgeridoo, prima di irrompere con tracce famose come “Black Rock” e “Bininij Kunborrk”, in inglese e Kunwinku. Il cantante Richie Guymala ha detto che suo padre, a sua volta il cantante del gruppo roots Nabarlek Band, gli ha insegnato il canto e la danza tradizionale Kunborrk, oltre che la musica contemporanea. Influenzato da Warumpi Band, Blek Bala Mujik, Dr G, e Yothu Yindi, il tranquillo classic rock del gruppo invita all’azione nel sociale con pezzi come “The Struggle”. Ha detto Guymala che “come aborigeno sento che le nostre voci stanno andando perdute. Vedo razzismo ovunque, noi non siamo davvero uguali. Quando cantiamo ‘make a change’, ci rivolgiamo a ragazzi neri e bianchi, a tutti, tutti abbiamo un ruolo nella partita”.
Dopo aver inseguito il Tasmanian Symphony Orchestra Chorus intorno al MONA per quindici minuti, sono stata finalmente in grado di intercettarlo in un angolo buio due o tre livelli sotto di me. La sua performance “Extreme” è stata uno degli highlights del festival, e non per via del brivido della caccia. Vagando in giro con addosso t-shirt politiche e portandosi dietro gli spartiti avvolti nei giornali, il coro ha cantato di tematiche “alte” come la pace o l’imprecisione del significato. Le sue voci sublimi erano in perfetta armonia con lo spazio del museo e i temi del festival, e hanno comunicato emozione e calore.
Rahim Alhaj, iracheno americano, è un maestro dell’Oud, con cui suona canzoni d’esilio e della tradizione mentre coglie dall’aria ritmi interamente originali. Qui era con Wasfi al violoncello, e il loro show ha trovato una nuova risonanza. Anche Wasfi è legato all’Iraq: in quanto direttore dell’orchestra nazionale irachena, divenne famoso nel mondo per uno straordinario atto di ribellione, quello di suonare il violoncello sul luogo dove da poco era esplosa un’autobomba. I due artisti hanno una filosofia comune, cioè che la cultura, la raffinatezza e la musica sono di per sé stesse forme di difesa nei confronti della barbarie della guerra. Entrambi hanno perfezionato la tradizione dei loro strumenti, dei quali hanno assoluta padronanza, sviluppando composizioni e modi di suonare unici. Insieme gestiscono la tensione tra Oriente e Occidente, trovando conforto in un’esperienza condivisa. I ritmi da loro creati hanno acquisito un loro dinamismo, intrecciando giocosità e malinconia, uno struggimento per il modo in cui le cose avrebbero potuto essere.
Le Kardajala Kirridarra, nome che si può tradurre dal Mudburra con “donne delle dune”, hanno proposto ballate armoniose nella loro lingua. Brani come “Ngabaju” (“la canzone della nonna”), tratto dal loro primo album, hanno un sound che è nostalgico e avvincente. La loro producer Beatrice Lewis è riuscita con successo a integrare l’elettronica nella loro musica, ma sarebbe interessante alzarne il volume e vedere come una maggior pesantezza potrebbe completare la delicatezza delle parti vocali.
Con la sua voce splendente a risuonare forte e chiara tra le montagne e i porti, Emel Mathlouthi è stata una delle vere star del festival. Circondata dalla bellezza naturale di Hobart, con la sua veste nera scolpita è apparsa incantevole. Cantando in un misto di linguaggi, arabo e inglese inclusi, Mathlouthi con la sua intensità emotiva ha trasmesso al pubblico un significato profondo, indipendente dalla nostra traduzione delle parole. La convinzione nella sua voce, la sua potenza, la sua gravitas e la sua bellezza sono probabilmente il perché del suo essere chiamata a rappresentare i sommovimenti politici tunisini (e non solo tunisini). I suoi compagni al sintetizzatore e alla batteria elettronica intensificano e modernizzano il sound generale, dandogli un che di trip hop, come se si trattasse del lato oscuro dei Massive Attack. Tutto questo è stato particolarmente efficace in canzoni come “Ensen Dhaif” e “Lost”, entrambe dal suo ultimo disco Ensen. Mathlouthi ha concluso il suo show con una versione commovente di “War Child” di Dolores O’Riordan, facendo scendere qualche lacrima sui volti delle persone, subito prima che i loro cuori ormai vulnerabili fossero spezzati via dal set black metal dei Mayhem, posto a conclusione di tutto il festival.
La notte abbiamo ballato e assecondato la nostra curiosità al Faux Mo. L’innovatrice Jlin ha offerto una techno intensa, balbettante, che suonava come se una catena di montaggio si fosse trasformata in un’orchestra nei Caraibi. Questo ovviamente ha significato ispirare i migliori passi di danza, con la gente che si scassava e si muoveva a scosse.
Willyday Onamlay da Giacarta in Indonesia ha portato qui il suo stile di improvvisazione karawita col gamelan. Ha dimostrato una pazienza incredibile nel momento in cui due set techno si sono coalizzati, uno fuori e uno accanto. È stato uno sforzo focalizzarsi sulle sue composizioni finemente lavorate ed escludere i battiti martellanti intorno. Quando è riapparso con la band hardcore Axon Breeze dev’essere stato tutto più facile, la scena dei club è più adatta gli spigoli che alle trame sottili.
Tutte queste band sanno come lavorare con le discordanze, con cose diverse, mettendole assieme e creando materiale originale. Anche se possiamo non sentirci a nostro agio, ne vale la pena, perché questo porta con sé un’emozione che dà più forza ai significati. Tutto questo, una volta combinato con le voci potenti degli artisti, che cantano e incantano in molte lingue, ha dato la sensazione palpabile che la musica sia una forza di protesta e ribellione. Sarà triste vedere il MOFO lasciare Hobart, ma non vedo l’ora di sapere cosa combinerà la prossima volta.