LARGE UNIT, Fluku
Una sezione fiati a sei, composta da Julie Kjær a sax alto e flauto, Klaus Ellerhusen Holm a clarinetto, sax alto e baritono, Kristoffer Berre Albert ad alto e tenore, Thomas Johansson alla tromba, Mats Äleklint al trombone e Per Åke Holmlander alla tuba, per garantire una potenza di fuoco devastante. Poi Ketil Gutvik alla chitarra elettrica, Tommi Keränen alle electronics, Jon Rune Strøm e Christian Meaas Svendsen entrambi a basso elettrico e contrabbasso, Andreas Wildhagen e Paal Nilssen-Love a percussioni e batteria, con quest’ultimo anche nelle vesti di compositore e bandleader. Questa è la Large Unit del batterista monstre norvegese che abbiamo già ammirato nei Fire! o negli Arashi e che con questa big band, giunta con Fluku al terzo disco, non sembra viaggiare in territori così distanti da quelli esplorati dalla Orchestra di Mats Gustafsson.
Il disco, registrato dal vivo – e non poteva essere altrimenti – in un giorno solo ad Oslo, si apre con i 26 straordinari minuti della title-track, un sabba di piatti su cui entrano fiati indiavolati all’unisono che subito spariscono, fantastiche interferenze elettronche memori del lavoro di Otomo Yoshihide e una chitarra randagia e personalissima, poi la frase della sezione fiati torna, mentre il caos felicemente monta sempre di più, quasi una versione aggiornata delle sarabande dell’Art Ensemble o della follia esplosiva di Alan Silva And His Celestrial Communion Orchestra. Un clima simile lo avevamo già trovato nel bellissimo disco di Crimetime Orchestra (Life Is A Beatiful Monster del 2005), dove non a caso Nilssen Love sedeva alla batteria. Raggiunto il climax, restano da soli i fiati a rincorrersi tra capriole e rimbrotti, col baritono e la tuba in bella evidenza, come fossimo al cospetto di una versione espansa e schizofrenica del Rova Saxophone Quartet, mentre nelle retrovie l’elettronica mette zizzania. E sono passati solo cinque minuti. La baraonda continua con una perfetta gestione di dinamiche, spazi (la sezione ritmica non ha ancora praticamente proferito verbo), e timbriche, fino a che non arriva finalmente un tema innodico elevato al cielo dagli ottoni e parte un groove dispari trascinante, come avrebbero potuto concepirlo e suonarlo uno Steve Reid o uno Steve Coleman meno controllato e più selvaggio. Una nuova Thème De Yo Yo (Art Ensemble, anno di grazia 1970) senza la voce di Fontella Bass, ma con l’elettronica di Keränen a frugare in ogni spigolo, e tutti i fiati a spingere come dannati senza mai risultare meno che necessari. Spettacolo puro, e siamo solo poco oltre la metà del pezzo. Poi, giunti al guado, un solo delle batterie, prima furiose e in seguito sottili e al limite del silenzio, ci porta dall’altra parte, dove una nota lunga delle ance apre nuovi mondi, Phil Cohran, il drone acustico, l’Africa, certa classica, i silenzi orientali che abbiamo imparato a perlustrare nel jazz grazie all’AACM di Chicago, poi è la chitarra a prendersi la scena, tra spericolate fughe free rock e l’eredità di John Mc Laughlin e Sonny Sharrock. Si chiude sul bordo del nulla, non troppo lontani da certe cose del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Un monolite da ascoltare e riascoltare, poi ancora e ancora. Dopo tanto ben di dio, è possibile non accusare cali di tensione? Quando i musicisti in ballo sono di questa levatura, assolutamente sì. Dopo la furia poliedrica dell’inizio, “Springsummer” è una sorta di ballata con il clarinetto a portare il canto e il contrabbasso dietro le quinte a tenere in piedi tutta la baracca, e la sezione fiati che entra in scena solo verso la fine, con frasi ariose e da instant classic. “Playgo” attacca invece come un Sun Ra o un Braxton d’annata: non c’è imitazione pedissequa in queste tracce, ma sincera voglia di proseguire i viaggi interstellari dei maestri, con piena consapevolezza delle radici e sicurezza nello spaziare anche in altrove sonori a volte persino inediti e mai gratuiti.
Altri sedici minuti su livelli di eccellenza assoluta, i riferimenti che si potrebbero citare sono davvero mille, ma ciò che vale la pena di sottolineare con forza è la vivida ispirazione di ogni singolo passaggio di questo disco, orchestrato in maniera esemplare, melodico senza essere mai prevedibile o superfluo, sostenuto da una pienissima pacca rock ma mai retorico o caotico tanto per esserlo (quanto dovrebbero imparare certi musicisti noise dai loro colleghi jazzisti!). Chiudono il lavoro i dieci minuti scarsi sghembi di “Happy Slappy”, con un attacco che fa pensare ai The Ex (c’è una sottile vena freepunk che funge da filo rosso, in questo disco, un approccio anarchico e da marching band impazzita) con Brass Unbound e che muta forma in un basilisco con corpo afrobrasiliano (i fiati vestiti a festa) e testa giapponese (il noise bianco e spietato a stranire il tutto), e un afflato in opposition che mi fa supporre che il riferimento nel titolo a “Slap Happy” sia assolutamente intenzionale.
Eravamo abituati a considerare Nilssen Love come una furia alla batteria, straordinario nell’aggiungere confusione alla confusione, furore al furore in modo poetico e feroce, ma a volte non sempre calibratissimo, soprattutto nel live, nell’uso delle dinamiche. Questo disco invece consegna agli archivi un batterista completo, un compositore assolutamente maturo, versatile, coraggioso, libero ed aperto a mille influenze, che vengono rielaborate con stile personalissimo e con l’apporto di un nutrito gruppo di musicisti in stato di grazia.
Non vediamo l’ora di intercettare la navicella Large Unit dal vivo, se passerà su orbite non troppo lontane dalle nostre.
Un disco da avere e da sbattere in faccia ad altissimo volume a chi dice che il free jazz è tutto uguale.