LANKUM, 19/10/2024

Lankum – foto di Andrea Amadasi

Bologna, Teatro delle Celebrazioni (nell’ambito di Barezzi Festival).

Stasera a Bologna piove molto ed è tutto allagato, ma io ho fatto un lungo viaggio e ho da un mese in mano il biglietto per i Lankum. Sono innamorato di loro e mi sento in debito, perché l’altr’anno non li abbiamo mai nominati nonostante divenisse di settimana in settimana sempre più chiaro che erano un rarissimo caso di gruppo che mette tutti d’accordo. Ormai da anni, infatti, gli appassionati sono divisi e trovano un minimo comun denominatore solo in qualche vecchia gloria diventata famosa prima che internet e le nuove tecnologie cambiassero la produzione e la fruizione della musica. Quello che il Guardian – dunque il mainstream – ha chiamato l’heavy mutant folk dei Lankum, può invece stare (ci è già stato) comodo sia al Primavera Sound, sia al Roadburn Festival, non per niente oggi Ian – uno dei due fratelli Lynch da cui è scaturito il progetto – indossa la t-shirt dei Bell Witch, perché tout se tient.

Insomma, se non si fosse capito, io non ho visto arrivare i Lankum da Dublino in questi anni, ho scoperto e capito da poco la loro ascesa: False Lankum del 2023 ha fatto un botto fortissimo e ha svegliato pure me, ma loro erano lì per noi da due o tre dischi prima. Il gruppo è composto da quattro cantanti, Radie Peat, Cormac Mac Diarmada, Daragh e Ian Lynch, le cui armonie vocali mi scavano dentro. Questi stessi quattro sono anche polistrumentisti (cornamuse, fisarmoniche, violino, chitarra, pseudo-synth, percussioni…) e fanno parte dell’attuale scenario underground e DIY della città, infatti in questo tour alle percussioni troviamo Ellie Myler, che suona con Radie negli ØXN. Sono contemporanei, sì, ma hanno anche il consenso delle generazioni precedenti alla loro: non troppo tempo fa Shirley Collins, quasi leggendaria cantante folk degli anni Sessanta e Settanta, ha scritto su Wire di una sua “epifania”, avvenuta sentendo proprio la voce della Peat, in quel momento intenta con “Hares On The Mountain”, presa da Folk Roots, New Roots, l’album che Collins aveva realizzato con Davey Graham nel 1964. Del resto, per chi non lo sapesse, i Lankum – capaci anche di comporre brani originali – rivisitano continuamente il canzoniere folk, trovandogli un significato per questo secolo, sia a livello musicale (attraverso bordoni, basse frequenze, dissonanze, volumi potenti, tecniche estese, quasi dividessero una sala prove immaginaria con Tony Conrad, Dylan Carlson e Stephen O’Malley), sia a livello testuale. Riescono sempre a farci provare il dolore di popoli e persone che non abbiamo conosciuto, portandolo nel presente, come se fosse sempre esistito o come se tornasse sempre identico anche se con abiti diversi. For me there has always been something fascinating in the way that a song can survive for so many years, scriveva Ian Lynch nel 2019, per la precisione su di un libercolo edito da Rough Trade col quale la band raccontava le “stories behind the songs” dell’album The Livelong Day. Questa sera, non per caso, da buoni irlandesi non esitano a parlare e a cantare a favore dei palestinesi: “The Rocks Of Palestine” è l’ennesima reinvenzione della tradizione (il brano originale non ha nulla a che vedere col Medio Oriente), apertamente politica, tra l’altro non ancora fissata su disco e dunque preziosissima. Tutto questo, per scelta precisa, succede subito dopo l’incantesimo di “The New York Trader”, una canzone che ci avverte che non è mai una buona idea intraprendere un viaggio portando con noi uno che sappiamo essere un assassino. E prima di “The New York Trader” i cinque eccellenti performer – ma qualche trucco decisivo, specie a livello di amplificazione, dev’essere opera del tecnico del suono Thomas Donohue – avevano già commosso tutti con la loro versione malinconica di “The Wild Rover”, un pezzo che nei paesi anglosassoni è conosciutissimo, suonato pure dai Dropkick Murphys: la gente lo considera una “drinking song”, ma i Lankum lo leggono diversamente, sottolineando come alla fin fine la sua “morale” sia mollare il bicchiere e fare ritorno a casa.

L’ospite non invitato di oggi è il maltempo, che fa tardare di mezzora il concerto e lo accorcia, perché i pompieri temono allagamenti e quindi disastri con la corrente elettrica. Alla fin fine questo rende speciale ogni momento vissuto a teatro insieme alla band, scatena l’affetto sincero che gli spettatori provano per essa, finendo per commuovere i musicisti: Radie Peat ringrazia tutti in italiano più volte, raccontando di aver abitato proprio a Bologna da giovane, questo mentre gli altri tre la prendono affettuosamente per il culo. Una cosa è certa: i Lankum vogliono suonare nonostante tutto e provano a strappare più minuti che possono dalle mani della vigilanza. Sarà che sono super fricchettoni, ma io me lo sentivo che avrebbero fatto così. Sarà che suonano anche “The Young People” da The Livelong Day, un pezzo a metà strada tra il sereno e il triste che ricorda a tutti come abbiamo poco tempo a disposizione per ballare: siamo scritte sulla sabbia, cantano, e in effetti l’acqua di questo 19 ottobre – ancora non lo sappiamo – ci ha portato via un ventenne. A questo punto è quasi impossibile non fare cenno all’esecuzione del penultimo brano proposto: il capolavoro di False Lankum “Go Dig My Grave”, la morte di una figlia per amore, il suono acuto del violino e dell’organo che trafiggono cuore e testa, la sofferenza insostenibile nella voce di Radie Peat, il maggiore uso dei silenzi in questa versione live, silenzi durante i quali realizzi l’orrore di Gaza e sei incredulo che qualcuno in Italia nel 2024 possa sparire nel fango.

Ho pianto senza singhiozzi per quasi tutto lo show, sono uscito felice nel buio in mezzo al disastro e sono tornato a Trieste beccando l’unico varco autostradale funzionante. Potevo farmi molto male, ma non volevo mancare e avevo ragione io. State zitti. Come diceva uno che quest’anno si è pagato tutta la pensione: Che vuoi farci è la vita / È la vita, la mia.