LAMBCHOP, 3/3/2017
Bronson, Madonna Dell’Albero (Ravenna).
Il diavolo è nei dettagli, è lì che il Misterioso nasconde la sua coda: così l’adagio, e così i magnifici Lambchop da Nashville, Tennessee, che di diabolico non hanno nulla (semmai in loro c’è qualcosa che anzi sa di celeste), ma che in una cura miracolosa di ogni minimo particolare celano quasi con pudore il segreto di una musica semplicemente perfetta.
Il modo in cui Kurt Wagner accenna timide danze, fermo davanti al microfono e alla sua postazione con tanto di vocoder (uno degli aggeggi che personalmente trovo meno stimolanti all’ascolto tra tutto l’arsenale di diavolerie utilizzabili in musica, ma che, come per miracolo, calato in questo contesto calza a pennello). Lo sguardo da zio buono del saggio tastierista Tony Crow, saggio perché, come tutta la band, suona a volumi quasi impercettibili, con lentezza che non sfocia mai in noia, e non mette mai nemmeno un’unghia di nota di troppo. L’attenzione e l’amore a labbra strette con cui Matt Swanson, faccia da figlio buono di Christopher Walken e t-shirt degli OvO, sfiora le corde del suo basso, delicato e fondamentale nel dare aria a pezzi che, certo, forse si somigliano un po’ tutti, ma sono così nitidi e toccanti da non lasciare davvero spazio a critiche, per stavolta. Il silenzio religioso con cui le prime fila del folto pubblico accorso accolgono questo pugno di canzoni, eteree e sospese tra country metafisico, soul lunare, gospel da stazione orbitante, polvere da grammofono e un’attitudine Zen che pervade ogni singolo angolo dello spazio delineato in questa bolla che i nostri riescono a creare da subito. A punteggiare con tocco inesorabilmente soffice il tutto Andy Stack alla batteria, arricchita di sequencer e drum-machine. Le basi, quando ci sono (nell’ultimo disco Flotus, che conferma il solito altissimo standard del gruppo, la componente elettronica è molto presente), non sembrano in realtà particolarmente memorabili, ma è l’emozione che trasmette in ogni singolo momento Wagner a esserlo.
Queste sono canzoni che ti fanno ricordare come ci si sente quando sei innamorato, quando ti hanno lasciato, quando ti svegli un mattino d’inverno e guardi fuori mentre nevica, canzoni che ti riconciliano con quel tanto di retorica che serve per costruire la tua minima mitologia personale, per raccontarti che sei vivo. Canzoni che ti fanno sentire parte di una famiglia, affratellata da un idem sentire. Canzoni come lettere non spedite e che non arriveranno mai, ma che custodivano e ancora trattengono qualcosa di importante, di identitario, di cruciale. “Ricordatelo, le notizie più belle vengono sempre dette ad alta voce”, sembra dirti ad ogni pezzo Kurt, con un cantato al tempo stesso fragile e monumentale, che ha oramai i lineamenti di un grande classico senza tempo. E riesce a dirlo proprio a te, ad ogni singolo te presente stasera in sala.
Non serve citare un pezzo o un altro, è l’intero concerto che è stata una vera e propria esperienza. Per un tempo non quantificabile, siamo tornati a casa. Dove semplici storie di minima epica domestica assumono un significato universale. Per deformazione di ascoltatore maturata negli anni, confesso di non prestare particolare attenzione ai testi, se cantati in una lingua diversa dall’italiano. In una qualche maniera però sento di poter dire che io lo so di cosa parlano le canzoni dei Lambchop. Costolette (ovviamente d’agnello), motel, l’ampia nebulosa che prende il nome di America, due tazzine sporche nel lavandino, un’orma di rossetto su uno specchio opaco, strade blu, fantasmi di letteratura, ombre, passati che non finiscono mai, confini, speranze. Una tipica ricetta statunitense, ma cucinata con gusto sopraffino. Con qualche spezia a insaporire il tutto, come l’elettronica a questo giro, e un uso delle dinamiche semplicemente spettacolare. Mai, se non nella musica jazz, classica o contemporanea mi è capitato di vedere un quartetto mostrarsi così capace di suonare in punta di dita. E per una volta, dopo il concerto, spararsi 150 km in solitaria immersi nel muro di nebbia dell’autostrada nella pianura democratica e “ipermercata” non lascia troppo amaro in bocca. Le cose semplici sono le più complicate, Kurt lo sa.
Grazie a Chiara Viola Donati per le foto.