La scena musicale di Bristol durante il (fucking weird) lockdown
La parola magica della scena di Bristol è sempre e solo una: “community”. Fare arte a Bristol è una cosa da condividere, a livello emozionale, tecnico, fisico.
Ho provato nei giorni scorsi ad aprire un dibattito sulla mia scassatissima pagina Facebook sul futuro di certa musica italiana, tra noi “clienti” e loro, i musicisti: la sensazione resta sempre quella che siano legati alla realizzazione di un supporto fisico (vinile in primis) soprattutto per la soddisfazione personale di avere tra le mani un “figlio”, come per uno scrittore può esserlo un libro stampato. Tutte cose assolutamente comprensibili. Ma, a mio modesto parere, un attimino fuori dal tempo. Qui, invece, le produzioni sono sempre più legate al digitale (idem per gli scrittori, con Kindle et similia) e in tempi come questi, in cui la qualità ineguagliabile del suono del vinile può serenamente andare a farsi fottere, le compilation “smaterializzate” – specie su Bandcamp – stanno letteralmente salvando la baracca a locali storici, come per esempio l’Old England, dove hanno suonato squinternati come i Perverts o fastidiose imitazioni dei Devo come gli U-Bahn, ma pure tipi come Fuzz Orchestra e Mai Mai Mai… com’è possibile che in due giorni l’Old E abbia racimolato 2500 euro con una compila ad esso dedicata fatta da artisti locali non certo di grido (e magliette), mentre lo stesso esperimento, ad esempio quello di Bronson Recordings o di Stochastic Resonance con Interi Coprimi (con nomi di assoluto valore nazionale), abbia ottenuto vendite di una copia e mezzo al giorno? Presidente Conte, qua serve una sua diretta Facebook sugli artisti che sono chiusi in casa e non potranno lavorare dal vivo per mesi ancor… ah no mi scusi, ha già detto grazie agli artisti, che sono quelli che ci fanno tanto divertire…
Vediamo ora cos’è uscito da questa community in questo periodo.
FINLAY SHAKESPEARE, Solemnities
Disco uscito di recente che avrei potuto recensire anche prima, ma ho aspettato la fine del vostro lockdown (qua, dopo il primo weekend di pub riaperti, stanno facendo la conta di quanti dovranno chiudere di nuovo, per focolai di virus…), perché è perfetto da ascoltare in auto a finestrini aperti, nelle giornate di sole, girando con le cuffiette. O a casa a volume molesto, e con in mano la scopa come microfono. Finlay al suo secondo album, sempre per la prestigiosa Editions Mego, libera la sua voce come non mai, e ti fa cantare con lui. Un disco elettropop con venature di new wave che piacerà molto alle vedove dei Depeche Mode che furono. Testi quasi profetici su un futuro di difficile identità e relazioni a livello mondiale, ma che ti dà la spinta per credere in te stesso e tirare fuori il meglio che hai, a costo di cambiare te stesso in quasi tutto. Del resto questi sono tempi in cui non c’è la possibilità di scegliere il tipo di cambiamento preferito, uno è ed è per tutti.
Mi sarei aspettato un sophomore completamente diverso, visto che come ingegnere musicale sta facendo nuovi prodotti per la sua Future Sound Systems, e data la sua stretta amicizia personale e professionale con quel genio di Chris Carter, l’ex Throbbing Gristle. Invece, come dice giustamente Peter Rehberg nella press release, Finlay è un vero freak. Tipo che a Natale prende una registrazione dalla BBC di cantiche natalizie in chiesa e le destruttura fino a trasformarle in avanguardia pura, disponibile in free download sul suo Bandcamp, e poi ti fa un disco elettropopwave. Prendere o lasciare. Prendere, prendere, che domande sono…
K-LONE, Cape Cira
Debut album per un nome molto interessante della scena inglese, from Bristol, chettelodicoaffare. Sonorità che non sono molto compatibili col mio DNA, ma sicuramente un disco ben prodotto e album of the week per Bleep. Da tastare con mano al primo live suo… probabilmente tardo inverno, da luglio qua si riapre solo con live in streaming a porte chiuse come stanno già facendo a Berlino… ciao core… Cape Cira, consigliatissimo anche da Chris Farrell, boss della Idle Hands, storico negozio locale indipendente, particolarmente feticista sulla Italodisco, e pure label che continua a produrre nuovi talenti alle prime armi.
HODGE, Shadows In Blue
Altro debut album dopo una quantità sterminata di ep fisici e digitali, etichetta Houndstooth quindi top label, un disco sorprendente perché molto meno “danzereccio” del previsto, ma molto vario, anche introverso in certi momenti, da uno degli artisti bristoliani con più tappe all’anno in tour ad ogni latitudine.
HARRGA, Femmes D’Interieur
Nel caso tu non fossi ancora svenuto e disidratato dalla lettura di questo pezzo, avrai modo di ricordarne un mio precedente su The New Noise riguardo al debut album dei due Harrga, la funambolica ed inarrestabile francomarocchina Dali, che ha pure sospeso il suo contratto da professoressa universitaria per seguire gli altri suoi innumerevoli progetti musicali in vita a Bristol, e l’iberico sperimentatore folle Miguel. Da quei tempi ne è passata di acqua sotto i ponti, non solo un pezzo monografico su Wire dedicato a Dali, ma pure live incendiari in tutta Europa. La tappa al celeberrimo Cafe OTO di Londra deve aver lasciato gli astanti a bocca aperta, ed ora gli Harrga si aggiungono al catalogo di produzioni by Cafe OTO accanto a nomi come Otomo Yoshihide, Blurt, Richard Youngs…
Il nuovo disco è in realtà un unico pezzo di una ventina di minuti, tutto dedicato alla condizione della donna nel mondo, a livello di diritti personali e di libertà d’espressione. Il cantato di Dali in francese, dal terzo-quinto ascolto in poi si attacca alla tua pelle e non va più via. Le bordate elettroniche e ritmiche di Miguel fanno il resto. Femmes D’Interieur è un’uscita solo in digitale, vedi l’introduzione…
MXLX, Serpent
Matt Loveridge è un celebre “black dog” bristoliano. Ha fatto parte dei Beak di Geoff Barlow (Portishead), a nome personale fa colonne sonore per film e cortometraggi e con l’alias MxLx tira fuori l’Aphex Twin che è in lui. Ha tipo 65 dischi fatti, tutti da solo, con vari progetti, e quasi tutti con la sua label Kindarad, in digitale, sette pollici, cassette… La prima volta che ho ascoltato Team Brick, composto da lui quando aveva 15-16 anni, sono rimasto di merda. Non è possibile fare e prodursi un disco così a quell’età, cazzo. Ha da poco superato i 30, e come sempre per lui il tempo non esiste. È stato tipo 3 anni senza farsi vedere in giro né produrre alcunché, ogni tanto si presentava a qualche live per trenta secondi o max dieci minuti, poi con cappottone e sguardo sbilenco se ne andava, il tempo di un rapido ciao a chi lo salutava. In quel periodo, un paio di volte ci ho parlato per più di trenta secondi, realizzando che nel frattempo era diventato homeless. Mi ha dato il suo cell e qualche giorno dopo gli ho mandato un paio di contatti di gente che affitta camere a prezzi da studente, non da figlidipapà come i quasi 4000 studenti universitari cinesi in città. Ha ringraziato e detto che ne terrà conto. È riapparso dopo un po’ con una donna nuova al suo fianco, e da quel momento ha una luce diversa nei suoi occhi. “Ho quasi pronto un disco nuovo, ci lavoro da 20 mesi giorno e notte”. “Grande Matt! E com’è?” “BAAAADDDD!!”, mi fa come se in bocca avesse un pezzo d’asfalto. “Ok, ho capito tutto… se mi dici così te lo compro subito, quanto mi fai il cd? O esce prima il digitale? Tieni ‘sti 10 pound e non rompere il cazzo”. Scoppia a ridere e mi comunica che lo troverò alla Rough Trade. La sera prima dell’uscita ufficiale gli mando la foto mia con two fingers, cd nell’altra mano, da una panchina zozza e polverosa di uno sperduto bus stop. Avevo appena fatto una supercazzola al boss della Rough Trade per farmi comprare il cd alle 18 del giovedì quando avrebbe dovuto essere esposto dalle 10 del mattino successivo.
Serpent è un classico disco alla MxLx: intuizioni geniali, sprazzi di poca lucidità, eccesso di ingredienti, un vulcano di idee senza confini di genere e di epoche. Ora ha fatto altri due dischi, uno semi-pop, un altro technotrance, poi per altri 5 anni sparirà? Boh. W Matt.
ILLEGAL DATA, Compilation 1
I due Giant Swan, con le crew Livity Sound e Timedance, sono il massimo dell’elettronica danzereccia bristoliana di ricerca. Torno un attimo al concetto espresso all’inizio: community. Community in questo caso significa che uno dei due Giant Swan (Robin Stewart) sonorizza le performance poetiche e di spoken word della graziosissima Daniela Dyson, anche sua attuale compagna di vita, partecipando pure alle serate Avon Corps, che in questo momento si sta dedicando a compila Bandcamp di sostentamento e lancio di nuovi talenti. L’altro Giant Swan (lo smanettone Harry Wright), dal canto suo, ha messo in piedi una label e una crew di nuovi astri nascenti della Bristol bass music. Le prime serate live sono sembrate molto interessanti, la compila su Bandcamp pure, dopo il lockdown vedremo che succederà… li mortacci loro (non loro, quell’altri).
BATU, False Reed
Mi è successo una sola volta in migliaia di concerti italo-inglesi di andare via prima della fine, perché quel live “era troppo bello”. “Non posso restare un minuto di più, poi finisce che ascolto solo questa musica per settimane intere e invece ho decine di dischi nuovi da scoprire e ascoltare”, stavo pensando in quel momento. È stato a un live di Batu di parecchi mesi fa. Il boss della Timedance dal vivo fa cose incredibili, ancora meglio che su disco. Ho comprato un mangiacassette proprio perché i suoi mixtape sono solo su cassetta. L’ultima cosa sua è un ep di tre pezzi, False Reeds, ma lo aspetto al varco per i prossimi progetti, anche di nomi nuovi interessantissimi tipo Lurka. Sono sicuro che saranno delle mine.
MILO’S PLANES
Una delle mie band preferite in assoluto, molto giovani ma suonano insieme sin da ragazzini e nei live si vede, sono una perfetta macchina da guerra. Doppia batteria, a volte quattro voci in contemporanea, tre chitarre di cui una percossa in orizzontale come fosse un rullante. Pezzi spesso complessi e lunghi nei set dal vivo, ma composti molto bene, ed eseguiti alla grande. Non voglio scomodare nomi come Fugazi, ma se dico At The Drive In, credo che ci siamo parecchio. Il cantante principale dal vivo spara la voce a volumi e timbri inauditi, con quel faccino da cassiere di un McDonalds qualsiasi e invece… Ora hanno fatto un pezzo orrendo per una digital compilation locale, moscio, senza capo né coda, faccio finta di non averlo neppure visto né sentito. Prima del lockdown mi diceva il leader che hanno pronto parecchio materiale nuovo per l’autunno, già registrato a fine anno scorso a Londra. Le bombe stanno per arrivare, amici miei.
CONCENTRATION, I’m Not What I Was
Power rock band australiana spaccatutto, che quel fenomeno di talent scout della Bokeh Versions ha trovato non so dove e come… lui scoverebbe il petrolio anche sotto un letamaio, ha un fiuto micidiale… mannaggia il cor(o)navirus che ha bloccato sul nascere il tour europeo di questa devastazione sonora… intanto 4 pezzi dal loro ep I’m Not What I Was sul Bandcamp di Avon Terror Corps… stay tuned.
PINCH, Reality Tunnels
Rob Ellis è una figura leggendaria della Bristol contemporanea.
Chris Farrell, che conosce ogni cosa della scena locale, lo chiama scherzosamente – ma non troppo – “Sir”, baronetto, altissima onorificenza conferita da Buckingham Palace a cittadini per meriti sportivi, artistici, culturali…
Non volevo scrivere di questo disco, perché per me Pinch, come Burial, è sempre stato uno da singoli-bomba, alla “Waterbomb” per intenderci, non ce lo vedo su album da 10-12 pezzi per circa un’oretta di musica di fila… ascolto l’album una-due-tre volte, niente da fare, non mi entra, manca il pezzo “astratto”alla Pinch che si stacca su tutto e ti rapisce. Poi una mattina mi bussa alla porta il postino, mi consegna il nuovo Blow Up e vedo che Luca Galli parla di questo Reality Tunnels. Lo riprendo come se qualcuno mi avesse lanciato una sfida e, siccome si impara sempre dai migliori, beh, aveva ragione Galli. Grazie Luca,anche se non ci conosciamo di persona. E grazie naturalmente a Sir Rob Ellis, che scavando, scavando ha fatto veramente un lavoro pauroso con la macchina del tempo, da un pezzo alla LFO tipo “Accelerated Culture” fino a cose alla Novelist e alla Tricky con vocalizzi femminili angelici dalle ali strapazzate domattina.
SRS, Data Fossil
Ultimo mio live visto prima di questo stramaledetto periodo: nel seminterrato dell’Exchange seratona di hiphop-roots-rap con un paio di nomi di grido americani e la crew locale Young Echo in formazione inedita come al solito. Ma io ci sono soprattutto per il set d’apertura, la giovanissima e talentuosissima Sunun. Io e il dub siamo compatibili tra di noi come la mia pelle che indossa una maglietta della Juve. Non ce la faremo mai. Mai. Però Sunun è diversa. Ha proprio un modo di sentire e di fare musica tutto suo. Robin Stewart, la metà meno “pestona” dei Giant Swan, conosce Sunun da almeno un paio d’anni, è facile incrociarsi negli stessi live. Hanno già fatto qualche set assieme,si sono già annusati.
Questa sera Robin sta a pochi passi da me, tra il pubblico. Sunun comincia a far macinare il suo laptop e Robin vede la Madonna. Io che te lo dico a fare.
Il laptop di Sunun è il cappello del prestigiatore, escono conigli e magie a getto continuo.
Non so che voce abbia Sunun. Non ha mai detto né cantato una sola parola nei suoi live.
La mamma un giorno la chiama al telefono e le dice che ha avuto una “possessione” spiritica. La mamma di Sunun è italiana e le detta le parole di questa esperienza, in italiano.
L’artista bristoliana ne parla con Robin, ed eccoci qua. SRS sta per Sunun Robin Stewart, Sunun dipinge dub mentre in italiano un po’ zoppicante ma comprensibile declama il testo della mamma, senza teatralità. Robin ci mette dentro i suoi tunnel e vortici di suono e rumore ipnotici e martellanti (nei live dei Giant Swan ci finiamo dentro con tutte le scarpe, ogni volta).
Cinque tracce assolutamente devastanti, un asteroide non classifico e non classificabile che non si ferma mai.
Gli “incursori”: RRS/T.S.Idiot/Autobitch
Robert R. Shackleton è una one man band composta da chitarra elettrica, mangiacassette con basi preregistrate o cassette dal nastro distrutto all’istante per eccesso di skip o di percussioni, più oggetti raccattati sul momento tipo attaccapanni, sedie da percuotere, bamboline di pezza da torturare… il tipo con evidenti disturbi e conclamati attacchi di panico (ho comprato un suo “quaderno” di disegni fatti in momenti simili) si esibisce di solito come primo atto di una serata live o, come tipico per quella categoria che io chiamo “disturbatori/incursori”, tra un set e l’altro, mentre c’è il cambio di strumenti e di settaggio sul palco tra le varie band. Fa pezzi spesso improvvisati, botta e risposta col pubblico, parodie di rockstar e declami nonsense, spesso divertenti ma non mi pare sia quel genio che crede di essere. Comunque gli si vuole bene a prescindere, anche perché non usa volumi alti, e nel frattempo, tra una risata e uno sbadiglio, appoggiati al bancone del pub si può broccolare qualche bella cavalla presente alla serata.
T.S.Idiot, parodia del celebre T.S. Eliot, è un fricchettone minuto e gentile, sembra provenga dall’epoca dei cantori medievali, indossa cappelli improbabili e occhiali di un’epoca antica, fa parte di una crew genderfluid e come i suoi amici e amiche alterne poemi surreali a canzoni folk leggiadre e sarcastiche. Anche lui si intrufola tra un set e l’altro spesso con gag quasi da stand up comedian.
Le Autobitch si amano e basta. Sono due ragazze che gestiscono (gestivano? Lo scopriremo solo a fine lockdown stabile, ahinoi…), un vegan bar nel quartiere artistico in centro. Le Autobitch non sanno suonare, non sanno cantare, non hanno pezzi, non hanno strumenti. Arrivano, spesso non annunciate né in programma, a una serata di band che suonano, si siedono tra il pubblico come noi, alla prima pausa salgono sul palco, una chiede un microfono, l’altra chiede in prestito un rullante presente sul palco e una bacchetta. E si parte. La “cantante” fa tutto un “apri!chiudi!apri!chiudi!” urlato al microfono strusciandosi e fintorgasmando alla Meg Ryan in “Harry ti presento Sally”, l’altra va a ritmo col rullante o cambia a seconda di come le gira. Dopo 30 secondi massimo un minuto, fine del pezzo, arrivano ai piedi della fulminata al microfono birre birrette gintonic e quant’altro offerti dalle prime file in estasi, mentre noi abitudinari delle ultime fila fischiamo e applaudiamo sguaiati con parolacce e rutti a ruota libera. Pausa ristoro, si riparte. Altro pezzo di pochi secondi, “spingi, spingi, dai sento che spingi, ahhhhhh sìiiiii”, tutto un macello così, mentre l’altra picchia sul tribale andante. Di solito le incursioni delle Autobitch sono due-massimo-tre in una serata, anche se ognuna di esse dura 10-15 minuti appena, poi l’alcool ha giustamente la meglio. E allora chi si alza più dal seggiolino?