KUTIN, Achronie
La voce modulata di Adorno che legge un passaggio de “Il Castello” di Kafka introduce Achronie, album solista del sound designer viennese Peter Kutin. Non si tratta tuttavia di una riproduzione fedele: Kutin ha volutamente inserito una frase che stride con il resto del discorso, generando un paradosso temporale. Sul finire della sua lettura, si può infatti sentire Adorno affermare: “le mani di Kafka stringevano inanimate il suo portatile” (His hands clinging to his laptop motionlessly). È a partire da questo glitch che l’album trova la sua sorgente concettuale, perché fin dalla prima traccia, “Clusterfuck”, l’ascoltatore è gettato in un marasma costituito dall’alternarsi veloce e improvviso di ritmi differenti: la sensazione di essere rincorsi, messi alle strette, viene attenuata solamente sul finire del pezzo, quando nella giungla di rumori si fa strada il suono calmo e riappacificante di una ghironda. Questo orizzonte di tranquillità porta con sé una sensazione di ambiguità, come se l’arrivo dello strumento medievale non fosse che un miraggio. Gli scarti digitali e le macerie elettroniche lasciate dalla seconda traccia costituiscono la serra acustica dalla quale si fa strada la molteplicità di ritmi in “Beach Delete”. Anche in questo caso, Kutin riprende la struttura impiegata per “Clusterfuck”, smorzando il suo intreccio caotico sul finire del tutto, per lasciare come unico protagonista un sibilo persistente.
“Clusterfuck” e “Beach Delete” costituiscono, in un certo senso, la premessa al blocco tematico composto dalle successive “Achronie” (#1, #2 e #3), durante le quali vengono ripresi i temi dell’acronicità e delle discrasie temporali inaugurati dal glitch adorniano. A differenza dei pezzi precedenti, l’architettura sonora di “Achronie #1” ha un carattere solenne e si fonda su una composizione ben ordinata di ritmi, pur mantenendo costante la sensazione di angoscia che accompagna fin dall’inizio quest’album. Ciò che la caratterizza e che fa del trittico al quale appartiene il cuore dell’intero lavoro, è l’affiorare di parti musicali che funzionano come ricordi auditivi: verso la sua conclusione, infatti, si possono ascoltare voci infantili, una sorta di richiamo a un mondo umano sommerso che, qualche secondo dopo, si lega al rumore dell’acqua che scorre. Questi fenomeni evanescenti sembrano costituire delle crepe nella traccia, portali dai quali fuoriescono temporalità sepolte dall’accumularsi dei ricordi. Ciò che tiene assieme questi tre episodi è un filo mnesico che nasce dall’accostamento dei differenti suoni evocati: nella seconda Achronie, ad esempio, la dimensione acquatica ritorna attraverso la pioggia. Seguendo in modo nomade le strade a cui conducono le diverse ramificazioni temporali si arriva alla terza e ultima Achronie. In questo caso, protagonista è una voce femminile proto-umana, che conferisce un tono estatico all’insieme. Nel suo continuare a emergere per contrapporsi al mare di suoni da cui è circondata, essa perde gradualmente le sue resistenze fino a divenire tutt’uno con il suo ambiente, lasciando degli impercettibili respiri come unici segni della sua presenza semi-antropomorfa.
Se il disco di Kutin si fosse fermato qui, sarebbe risultato totalmente sbilanciato verso le ultime tre tracce, come se, in un certo senso, si fosse trattato di una scalata verso le Achronie. “Dirty Gurdy”, con cui termina il disco, ribalta tale sensazione richiamando, non a caso, il suono della ghironda sentito in “Clusterfuck”. Lo strumento medievale attrae, portandoli alle orecchie dell’ascoltatore, i rumori che lo circondano, fino a farsene completamente sopraffare. Per tutta la durata del pezzo si prova una sensazione di sospensione, data dall’impossibilità di sapere in anticipo come si evolveranno i diversi elementi auditivi che si intrecciano con la ghironda. Il limbo acustico perde mano a mano le sue componenti fino a evaporare totalmente alla fine.
L’idea di transitorietà, di indeterminatezza, di precarietà, viene ripresa anche dalla fotografia impiegata come copertina. Kutin ha scelto, infatti, uno scatto in bianco e nero di Stefan Neuberger, cameraman del regista tedesco Thomas Heise. La composizione della foto rinvia allo stile dei monumentali documentari di Heise, dove la vita in Germania viene presentata a partire da una riflessione sul sedimentarsi di differenti periodi storici all’interno delle istituzioni e della burocrazia tedesca. Nel suo Heimat ist ein Raum aus Zeit (Heimat è uno spazio nel tempo), il regista ripercorre la drammatica storia della propria famiglia attraverso le lettere, i diari e le note lasciate dai suoi cari. Mentre la voce fuoricampo di Heise legge i documenti, si susseguono immagini in bianco e nero della Germania contemporanea. Lo scarto tra la voce narrante e le immagini mostrate crea una zona temporale ibrida nella quale, pur nella loro inconciliabilità, i diversi tempi narrati sembrano coesistere. Questa considerazione non smette, tuttavia, di essere accompagnata da una paura più profonda, legata alla certezza che tale incontro di temporalità divergenti, anche se adeguatamente salvaguardato ed elaborato, potrebbe svanire da un momento all’altro. Come dichiara con stupore una delle autrici delle lettere riportate nel film: “ero convinta che tutto quello che era legato al nostro senso di identità non potesse essere dimenticato, nonostante la nostra volontà”. Kutin fa suo questo stupore, trattenendo, in Achronie, una sensazione di costante incertezza. Anche l’accumulo di ricordi che costituisce la nostra identità, sembra suggerirci Achronie, non può mai essere ritenuto un’ancora di salvezza: nessuna forma sarà mai così solida da potersi ritenere pronta all’incontro casuale e intempestivo di suggestioni provenienti da tempi obliati.