KRANO
Questo timido ragazzo dalla barba folta sta portando avanti la sua “cosa” con passione e senza fare troppo caso alle mode del momento. Requiescat In Plavem è un disco chiaramente “old style”, ma che al suo interno nasconde sfumature ed artifici stilistici che hanno un loro senso. Krano sa insomma come omaggiare il passato senza sembrare solo revivalista. Tra l’altro ci confessa che sono pronti anche dei pezzi nuovi, d’altronde quelli dell’esordio per la bolognese Maple Death Records risalgono ormai a quattro anni fa, come lui stesso precisa. Questa primavera/estate sarà in giro per un po’ di date, quindi il consiglio è di intercettarlo sul palco e di bere alla sua salute un buon bicchiere di prosecco. Buona lettura e prosit!
Grazie a Giulia Mazza per le foto.
Osservando l’artwork della copertina e ascoltando il disco si ha subito l’impressione di venire scaraventati in un mondo che non c’è più: gli anni Sessanta, la Band di Robbie Robertson, Neil Young, le farm dove organizzavano anche concerti. Approfondendo meglio il tutto però non è esattamente così, dato che l’insieme è spesso molto “intimo”, per nulla corale, anzi. Perché quest’intenzione di evocare quel particolare clima culturale, sempre che ci sia stata?
Krano: Una vera intenzione non c’è stata. Semplicemente, essendo fan sfegatato della musica degli anni Sessanta, mi è venuta spontaneamente e sono contento che qualcuno colga questo spirito. Diciamo che nel disco ho cercato di coniugare dei testi “intimi”, che provengono dal mio vissuto, con una musica folk-blues propria della tradizione americana. Se c’è un’altra cosa che può evocare quel particolare clima è forse il fatto che la registrazione è stata fatta in una casa in montagna dove mi sono trovato con diversi amici che mi hanno aiutato ad arrangiare e a registrare: ecco, forse quel contesto ha un po’ l’aspetto della farm e del basement!
Resti certamente uno affascinato dalla cultura musicale americana, non è un caso che tu abbia in passato pubblicato dischi per Fat Possum e Sacred Bones coi Vermillion Sands. Poi però te ne rimani a casa e incominci a rimuginare sul passato che appartiene alla tua terra d’origine: il Veneto. Il disco ha una storia lunga peraltro, ce la vuoi raccontare?
Un po’ di anni fa, nell’ultimo periodo dei Vermilion Sands, mi sono imbattuto in una delle tante sagre di paese della mia zona: suonava un noto gruppo in dialetto veneto. C’era moltissima gente, persone in delirio che cantavano tutte le canzoni a memoria e io non capivo il perché di questa fama e quindi decisi di fare due chiacchiere a fine concerto con la band e rimasi affranto. Per loro non era importante la musica, che consideravano un hobby, per loro contava solo il lavoro ed erano più felici nel vantarsi di aver lavorato tanto nella loro settimana che parlare del loro concerto o della musica. Da quella volta in me è scattato qualcosa e ho deciso che volevo dare una voce diversa alla mia terra ed alla sua lingua.
Intanto arrivi a Torino e solidarizzi con Gianni Giublena Rosacroce suonando ne La Piramide Di Sangue. Con questi ti adegui alla loro (folle) situazione facendoti chiamare Indaco Violento. Perché la scelta di questo nome così “esotico”?
Non ricordo bene. Penso che qualche personaggio strano mi abbia detto che avevo un’aura color indaco e oltretutto in quel periodo mi divertivo a virare sul viola le foto post mortem. Forse avrò unito le due cose…
Ho la sensazione che il tuo esordio solista abbia conquistato un po’ di cuori. Ce lo puoi confermare? Come stanno andando i concerti a supporto di Requiescat In Plavem?
Non me lo aspettavo ma c’è un buon riscontro, soprattutto fuori dal Veneto. Mi fa piacere quanto è strano!
Parliamo del video che accompagna il singolo “Mi E Ti” (una canzone d’amore). È girato da Samuele Gottardello in arte Second H. Sam (un 7”: “Shit Music For Shit People”, una cassetta per la romana My Own Private Records e la partecipazione alla compilation Nostra Signora Delle Tenebre) e si incentra sulla triste storia di un soldato che soccombe fra le rive del Piave durante la Grande Guerra. È evidente che quel periodo storico abbia condizionato molto te ed il Veneto in generale, o sbaglio?
No, non sbagli. Basta andare sul Monte Grappa per trovare ancora residuati bellici, trincee… Lì l’odore del sangue è ancora pregnante, l’atmosfera è decisamente spettrale. Anche se, ahimè, quella memoria storica sta lentamente scomparendo.
Mi racconti di come e perché hai incominciato a suonare?
Ho cominciato a suonare semplicemente perché già ascoltavo molta musica e ne ero affascinato. In realtà avrei tanto voluto avere una tromba, ma non è mai arrivata e così quando a mio fratello, più grandicello di me, hanno regalato la prima chitarra, ho cominciato a suonarla anch’io! Che sia stato meglio così?
Come pensi di affrontare un ipotetico nuovo album a nome Krano? Ci sono possibilità di trovare dei cambiamenti stilistici, o magari l’uso di un’altra lingua? O pensi che sia ancora il caso di insistere su di un’idea “cantautorale” ed un impianto diciamo di alt-folk piuttosto “storti” ed “empatici”? Brutalizzo un po’ nel definire l’insieme, ma trovo necessario farlo…
Essendo Requiescat in Plavem un disco vecchio, registrato quattro anni fa, ho continuato a scrivere. Ho già pronte altre canzoni sufficienti per un prossimo album. Spero ne esca un disco totalmente elettrico, sempre con il cantato veneto stretto della parte sinistra del Piave, ma meno “impegnato” e più inesorabile e logorato.
I membri che ti accompagnano suonano tutti in band della città. Come ti trovi qui a Torino?
Torino spacca. Non avrei una band se non vivessi a Torino, chiaro no?!