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KOWLOON WALLED CITY, Piecework

Era la sera del 12 luglio di due anni fa. Penso che tutti gli appassionati di post-metal e affini fossero al Carroponte di Sesto San Giovanni, perché in questo disgraziato paese non capita spesso di vedere nella stessa lineup Yob e Neurosis. La presenza di questi mostri sacri è un motivo sufficiente per affrontare qualunque disagio: dai controlli all’ingresso degni della dogana tra El Paso e Ciudad Juàrez al cibo chimico offerto dall’unico chiosco disponibile, per non parlare degli orari discutibili dell’evento: alle sette in punto, con il grosso del pubblico ancora attardato ai cancelli, i Kowloon Walled City avevano già iniziato a suonare.

È stato triste vedere un gruppo così valido esibirsi di fronte ad uno sparuto gruppo di persone. Pur penalizzati dall’ingrato ruolo di band di apertura e dalla mezz’ora scarsa a disposizione, Scott Evans e compagni erano comunque riusciti a sfoderare una performance di sostanza e a scuotersi di dosso l’etichetta di oggetto misterioso della serata. La convincente prova live mi aveva poi spinto ad ascoltare l’ottimo Containers Ship del 2012 e il successivo Grievances del 2015, e ora eccomi qui con la loro ultima fatica, Piecework.

La proposta musicale della band non ha subito grossi scossoni: Piecework ci presenta un post-metal caratterizzato da ritmi compassati e da un riffing minimale, ben lontano dalle grandiose architetture a cui ci hanno abituato molti protagonisti del genere. I Kowloon Walled City sembrano aver scelto una direzione diametralmente opposta rispetto alla concorrenza, puntando su strutture sempre più scarne e atmosfere ascetiche.

Niente botta, quindi? Non scherziamo. Questo disco è la miglior risposta ai fanatici del “più roba infilo nei pezzi, più tutto suona grosso”. Il merito è di Scott Evans, frontman del gruppo, ma anche apprezzato tecnico del suono, capace di mettere ogni strumento nelle condizioni di bucare il mixer. Le chitarre di Piecework sono affilate come coltelli, e affondano nelle orecchie dell’ascoltatore imprimendo fraseggi e melodie, mentre un basso poderoso ringhia le sue note al ritmo imposto dalle solenni percussioni. Quest’aggressione sonica contrasta con i toni crepuscolari dell’album: ognuna delle sette tracce si trascina fino all’apice della tensione, per poi inesorabilmente smorzarsi e sfumare in silenzi disarmanti.

L’attitudine dimessa e decadente è da sempre la firma dei Kowloon Walled City, ma in Piecework assume una dimensione molto più intima. Le immagini del degrado urbano e sociale di qualche remota località dell’Oriente (le fatiscenti costruzioni di Kowloon da cui il gruppo prende il nome, o i cimiteri delle navi di Containers Ship) lasciano infatti spazio a crude riflessioni sulla caducità della vita e l’alienazione che ci circonda.

Now we’re weightless, left for dead.
There’s no sorry songs left.

Il caso ha voluto che prima di affrontare Piecework stessi riascoltando il monumentale Spiderland. È stato come apprezzare in successione il lavoro del maestro e quello dell’allievo prediletto: la formazione di Oakland è riuscita riproporre il sottile gioco di contrasti chiaroscurali e l’essenzialità degli Slint in chiave (post) metal. Un risultato non da poco per una band che spero di rivedere al più presto dal vivo. Magari con un minutaggio adeguato e ad un orario più consono.