KOENRAAD ECKER, A Biology Of Shadows
Koenraad Ecker, belga, pubblica il suo terzo album, A Biology Of Shadows, per la sua etichetta appena nata, In Aulis. Leggo che è anche sound designer e in effetti noto subito come utilizza il digitale per creare spazi, ottenere la tridimensionalità. All’interno di questi spazi, spesso ampi e vuoti, fa succedere cose (in genere inquietanti), lascia credere che ci siano degli organismi sonori ad attraversarli e a interagire con essi. In due occasioni mette a sedere in questi stanzoni bui Alex “Bogues” Rendall degli Jabu, che recita uno spoken word (su cui comunque Koenraad “interviene”, anche se non in maniera pesante): in una di queste è esplicito il collegamento col titolo del pezzo (“Under Glass Argus Eyes”), il cui tema è il controllo che la società esercita sull’individuo, dato che Argus fabbrica telecamere di sicurezza. Del resto concettualmente la prima parte del disco (Endoscopy) ha sempre a che fare con la politica e il rapporto del singolo col Potere: un titolo parla di black block e zone rosse, un altro di Carlo Giuliani e del G8 di Genova del 2001. Si tratta di questioni che l’artista ha già affrontato: il suo lavoro precedente s’intitolava Notes From The Panopticon.
C’è poi una seconda parte (Undergrowth) che vorrebbe rappresentare una progressiva reazione alla precedente (dunque all’oppressione e al controllo) e in effetti è un brulichio febbrile vicino a quello dei lavori di Rashad Becker, con in più qualche sbalzo violento. Pare che in questa fase compaiano dei clarinetti e una batteria, ma sono all’80-90% irriconoscibili.
L’artwork del disco riporta una poesia di Ecker che riassume i due discorsi intorno ai quali si è sviluppato tutto. Visto quest’evidente interesse per la parola, non sarebbe male per il futuro se battesse la strada “ambient più spoken word” delle due tracce con Rendall, non perché siano quelle più accessibili (il linguaggio umano non può che diventare un appiglio sicuro in un contesto di suoni alieni), ma anche perché pare chiaro che Koenraad voglia trasmettere concetti non articolabili solo con la musica. Tra l’altro non è che questa sia una combinazione molto sfruttata, nonostante dischi come Liquid di Recoil/Alan Wilder ne abbiano mostrato le potenzialità. Eppure il sound design alla fin fine è un’attività che è quasi sempre al servizio di immagini, corpi, attori. Insomma, c’è del buono qui e va coltivato.