Klippa Kloppa: outsider per necessità
La band casertana ha una discografia che definire sterminata (e pure un po’ confusionaria) è poco. Da qualche tempo, però, ha deciso di agire con più lentezza, si è messa in testa di fare un album ben prodotto e stampato in formato vinile (dopo numerose uscite solo in digitale), addirittura di presentarlo dal vivo (di recente hanno pubblicizzato qualche data sui social). Tutto ciò ha quasi del miracoloso, dato che su di un palco i Klippa Kloppa hanno suonato raramente in passato. Questo gruppo interessa a pochi, o meglio: interessa principalmente a chi non è solo imbeccato da grossi siti e dalla stampa mainstream, ma di questo loro non se ne fanno un cruccio anzi, sono ben coscienti della situazione. Finalmente sono riuscito ad avere la possibilità di intervistarli (ci fu un primo approccio qualche anno fa, ma andò abortito), la scusa è stata l’uscita di Liberty, fatto di canzoni scritte in modo brillante e frutto di una rigorosa e silenziosa fase di decantazione. Quando scorrerete le liste dei dischi di fine anno, sicuramente in alcune troverete pure i Klippa Kloppa, ma la presenza di questo speciale gruppo sarà sempre sporadica, certamente mai casuale però, e per fortuna.
Avete incominciato a suonare come Klippa Kloppa agli inizi del Duemila, la vostra si può tranquillamente definire una carriera lunga e sotterranea e la discografia è praticamente sterminata. Da dove siete partiti e da dove proviene tanta prolificità?
Nicola Mazzocca: Abbiamo iniziato a far musica già prima del Duemila, durante gli anni universitari trascorsi a Napoli. Abbiamo condiviso le case, la passione per le musiche – alimentata da luoghi di ritrovo e scoperta come i negozi di dischi Fonoteca e Demos, allora distributore della Tzadik di John Zorn per l’Italia – e il fermento che alcune frange della città vivevano, quasi in risposta ad un’epoca non certo felice come quella della “Terra dei fuochi”. Anni in cui, ad esempio, grazie a esperienze come quelle di Wakeupandream, era possibile ascoltare a Napoli gli Xiu Xiu, Murcof, Wooden Shjips, Niobe, Josephine Foster, per fare alcuni nomi. Da qui la curiosità verso altri mondi musicali, che ci ha portato a viaggiare verso direzioni imprevedibili, pur chiusi in una casa di Montesanto (uno dei quartieri centrali di Napoli), e ad appassionarci anche a musiche lontane come quelle provenienti dall’Estremo Oriente. Ognuno ha compiuto percorsi propri, ma sempre “tornando a casa”, il gruppo come continuo luogo di scambio, in cui la musica era ed è il principale interesse tra gli altri che vengono condivisi (soprattutto cinema, illustrazione e fumetto). Forse ciò spiega in parte la convulsa e plurale produzione degli esordi e le dissonanze che affiorano in superficie, le linee cromatiche e gli accordi sfuggenti che non vengono risolti, le impertinenze aspre di certi gesti vocali di quelle musiche: un viaggio sonoro senza meta (intesa come ricerca di riconoscimento dal mercato), pronti a cercare un nuovo e diverso amore. Sin da allora, all’interesse per i lavori degli scultori di suono, per i percorsi della sperimentazione musicale elettronica, per i modelli estetici della musica digitale, propri degli anni Novanta, abbiamo accompagnato la necessità di mantenere un contatto col passato, da cui l’eclettismo sonoro dei nostri album degli anni Zero, in cui si intrecciano folk e musica barocca, marce e salteri, notturni e progressioni synthetiche, ritmi spezzati in contrappunto a riff di chitarra rock, forme popolari della nostra tradizione e suoni-giocattolo, arpe, violoncelli e atmosfere della film-music italiana. Ogni brano è una piccola storia ricca di assurdo, microcosmi, canzoni-oggetto, lungaggini volute, citazioni sarcastiche. Proprio perciò, non dovrebbe sorprendere che dal 2006, con l’album Io Ti Lecco Quando Vuoi, l’incontro con la canzone cantata in italiano sia stato una costante tra numerosi album ed ep strumentali: ci siamo ri-appropriati di una tradizione che ascoltavamo e amavamo, in fondo allora trascurata (l’indie-pop è fenomeno recente e fino a una quindicina d’anni fa quasi impensabile), scompaginandone a nostro piacimento le strutture sonore. Il percorso che porta all’ultimo album, Liberty, viene dunque da lontano, ed è il frutto di un tentativo continuo di tracciare nuove ipotesi tra forma canzone e altre forme compositive.
I Klippa Kloppa sono in un certo senso anche un “esperimento”. Voglio dire, non suonate quasi mai dal vivo, è piuttosto difficile trovare copie degli album nei negozi di dischi, siete stati (azzardo un po’…) tra le prime band “virtuali” dell’indie italiano, no?
Dopo l’esordio con Snowdonia del 2003, abbiamo deciso di pubblicare on-line i numerosi album prodotti di lì a pochi anni. Non era ancora chiaro l’indirizzo che la produzione e la distribuzione della musica avrebbe preso poi, ma ci entusiasmava la possibilità di restituire agli ascoltatori quanto creavamo in tempo reale, così da vivere con noi, nell’immediato, uno specifico momento del nostro percorso. Abbiamo inoltre vissuto il virtuale come un incentivo alla creazione in libertà: quel che non era possibile produrre su supporto fisico (in alcuni casi abbiamo prodotto più di un album e vari Ep in un anno), era pubblicabile on-line, per poi ricorrere alla stampa dei dischi solo in un secondo momento, in forma di raccolte rappresentative di fasi diverse: abbiamo auto-prodotto un cofanetto di cd-r nel 2010, e la raccolta di Ep dal titolo La Femme Blue nel 2012. Questa fase ha corrisposto inoltre a un più generale interessamento per la comunicazione in Rete, che ci ha visto avvicinarci ad altre espressioni artistiche, oltre la musica: video-arte, cortometraggio, audio-libro. Tutto ciò ci ha spinti a non cercare approcci diretti con etichette discografiche (pur mantenendo vivi i contatti e il confronto con altre piccole e virtuose esperienze produttive, quali ad esempio, Lepers Produtcions e Tafuzzy Records), e ancor più con soggetti più grandi, ai quali forse il nostro fare centrifugo non avrebbe fatto molto comodo. Il carattere plurale dei nostri lavori fa sì che tanti si possano avvicinare alla nostra musica; la nostra vocazione sonora è di maggioranza, ma il fare resta di minoranza, intesa come non lasciarsi manipolare, mantenere una tensione interna, sentire la responsabilità di provocare e ricordare attraverso la musica, costruire rapporti aperti, solidi e coerenti con quanti stimiamo che fanno/parlano/scrivono di musica.
Se la Rete è stata a lungo un propulsore per la nostra attività, con Liberty abbiamo sentito la necessità di andare in direzione opposta, realizzando un vinile: in un momento di sovra-produzione e frammentazione estrema del mercato della musica, abbiamo preferito lavorare su un tempo lungo, circa due anni, passare attraverso un mixaggio ragionato e professionale, e confrontarci con due voci preziose come quelle di Cinzia La Fauci e Alberto Scotti di Snowdonia: un piccolo gesto politico, una presenza fisica, una forma che esiste pienamente, e anche una mediazione non semplice tra l’improvvisazione dei lavori più radicali – che ha sempre contraddistinto il nostro approccio alla musica – e la necessaria costruzione di un suono da disco cantato, nel solco di una tradizione italica che abbiamo amato. La scelta di esibirci poco dal vivo è in gran parte figlia delle nostre scelte estetiche e produttive, ma anche in parte di un mercato per certi versi omologante. Da un lato, in alcuni momenti particolarmente fecondi, abbiamo volontariamente deciso di concentrarci sul lavoro in studio, o abbiamo preferito non eseguire dal vivo musiche che, per la loro complessità, sarebbero state necessariamente snaturate nella versione live. Chiudersi in sala di registrazione è forse anche il segno della volontà di mettersi alle spalle il mondo reale, ma è soprattutto la possibilità di avere a disposizione un mondo immaginario, in cui la registrazione non è semplice replica di un atto creativo, ma è parte stessa del processo creativo, è una costruzione di orizzonte alla quale concorrono la ripresa del suono, il missaggio, l’ascolto e il dialogo. Altrettanto vero è che il fatto di produrre musica varia, prolifica e difficilmente categorizzabile si è rivolto contro noi stessi. Cosa suonano i Klippa Kloppa? Che genere fanno? A quale “scena” appartengono? La difficoltà di rispondere a queste domande, che dominano le logiche di agenzie di booking e festival, ha certamente contribuito al nostro stare lontano dai palchi; ma Liberty sarà forse l’occasione per farvi ritorno!
Come riuscite a conciliare il lavoro con quello che fate per i Klippa Kloppa?
Ci riusciamo con difficoltà, vivendo in città diverse e facendo lavori che ci tengono lontani; ma ci ritroviamo con estremo piacere e persistente volontà. La creazione è un momento di gruppo, con ruoli definiti e riconosciuti, ma anche interscambiabili; l’intensità è data da relazioni profonde, in cui la complicità ha il sopravvento, la voglia è alimentata da un entusiasmo che non è mai scemato. Facciamo musica con un’attitudine libera e non perché dobbiamo rincorrere fini imposti. Il suonare è parte di uno stare insieme che va oltre la musica, e che però ci riporta sempre alla musica. È condivisione di ascolti, critiche, scherzi, preoccupazioni, amori, mangiate, caos.
Quali sono le vostre radici musicali? So che vi piacciono cose diverse tra loro, in particolare ci vedo legami con il miglior pop (secondo me), quello di Flavio Giurato e degli Squallor. Come scegliete il mood e il tema di ogni singolo disco, dato che sono sempre diversi?
Le radici sono molteplici, difficile elencarle compiutamente. Si potrebbe però ritrovare nella forma canzone in cui pop mainstream e avanguardia trovano un punto d’equilibrio, nella sperimentazione elettro-acustica non di maniera, e nell’eclettismo in cui vari generi (dal rock alla composizione classica) trovano una sorta di fusione, tre poli d’attrazione fondanti del nostro far musica, nella forma canzone dunque, e hai giustamente nominato Flavio Giurato e gli Squallor (e tanti altri, tra cui Enzo Carella, particolarmente amato). Le canzoni dell’uno sono intuizioni, illuminazioni, in cui la forma si sbriciola in ardite stratificazioni, e la letteratura e la canzone si contaminano; gli altri anzitutto erano grandissimi autori e arrangiatori, inqualificabili dissacratori, poi fenomeno culturale, ma soprattutto poesia: «si ‘stu core rimane sulo, tu vafanculo cu chi vuò tu». Ma non solo la canzone italiana: i ricami cristallini di Maaya Sakamoto, la violenza pura di Shiina Ringo e il nebuloso pop di Cornelius dal Giappone, i sovraffollati incastri di Van Dyke Parks, il meraviglioso segreto di Judee Sill, i percorsi di musica sghemba dei Tortoise, l’illuminante sintassi del folk-rock di Jim O’Rourke e David Grubbs dagli Stati Uniti, i laboratori di melodie acide degli Stereolab dall’Inghilterra, la deflagrazione tropicalista di Gilberto Gil, Caetano Veloso e Os Mutantes dal Brasile, e molte e molti altri ancora hanno influenzato il nostro percorso. Fondamentale è stato inoltre l’incontro con le sperimentazioni elettroniche a cavallo degli anni Novanta, dalla glitch-music alle estetiche riduzioniste, dalle manipolazioni techno a quelle variabili in cui il digitale incontra una sorta di “new folk”, Matmos e The Books, per fare due nomi. Infine, un fascino sempre forte hanno esercitato su di noi quelle esperienze compositive e improvvisative curiose ed eclettiche, capaci di immettere nelle proprie creazioni elementi provenienti da contesti distanti tra di loro per creare un qualcosa che, seppur costituito in larga parte da componenti familiari per chi ascolta, appaiono sempre vive: Masada, Eyvind Kang, Boredoms, Otomo Yoshihide, Ikue Mori, ma anche maestri come Art Ensemble Of Chicago, Steve Reich, Morton Feldman, Harry Partch. Non abbiamo però mai scelto di realizzare un disco sulla base dei soli ascolti o delle tendenze di uno specifico periodo; la scelta è stata sempre personale e legata al nostro sentire, legata a volte agli strumenti che avevamo a disposizione e che volevamo sperimentare, spesso al desiderio di tentare nuove forme, in alcuni momenti il frammento, in altri la suite. Gli ascolti sono sempre entrati in gioco nei brani, ma in una forma quasi inconscia e non mediata da progetti di emulazione. Infine spesso i lavori sono nati anche come risposta a quanto ci accadeva intorno; è il caso, ad esempio, dei dischi cantati in italiano della seconda metà degli anni Zero, una personale replica – fortemente melodica, provocatoria nell’uso della voce e dal tessuto armonico non ortodosso – al canone della musica italiana allora in voga, non proprio clemente verso quella tradizione popolare oggi tanto di moda.
Mariella, invece tu hai in programma un disco tutto tuo? Sarebbe interessante secondo me…
Mariella Capobianco: Con i Klippa Kloppa, nella musica, ho trovato il Nirvana dell’intesa creativa, mi sento perfettamente a mio agio con loro e le energie sono concentrate su Liberty e sul nuovo disco. Non escludo un’uscita in solitaria, sarebbe comunque una solitudine prodotta dai Klippa Kloppa.
Nicola, in passato hai scritto per Ondarock. Perchè non hai continuato in questo campo? Invece chiedo a Mariano cosa gli ha lasciato l’esperienza di autore per una canzone passata allo Zecchino D’Oro.
Nicola: Ho cominciato a scrivere per Ondarock tanti anni fa, principalmente perché ho frequentato per anni il suo magnifico forum e mi andava di dare una mano, nel mio piccolo, alla crescita di un sito che ho sempre stimato, detto ciò quella non è la mia strada, mi piace chiacchierare di musica ma da profano. Inoltre, sono troppo legato ai miei gusti soggettivi e alla lunga già so che prenderebbero il sopravvento
Mariano Caiazzo: Quell’esperienza mi ha lasciato tanta gioia per una vittoria schiacciante decretata dai bambini, ma anche tanta amarezza per non aver potuto conoscere Mariele Ventre, la vera anima dell’Antoniano.
Un aggettivo per descrivere X-Mary e I Camillas? E vi piacciono i Pop-X?
Nicola.: X-Mary e Camillas sono due gruppi sinceri, che fanno musica vera, incuranti delle mode del momento, capaci di raccontare la realtà per immagini altamente poetiche ma allo stesso tempo innocentemente naif, sono fra le nostre band preferite. I Pop-X non li conosciamo abbastanza per dare un giudizio.
Cosa non vi piace in generale della cultura musicale italiana?
La domanda meriterebbe una risposta complessa e diversificata, che riesca a tenere insieme esperienze e panorami non facilmente posizionabili su uno stesso piano. Vi sono però delle evidenze più facilmente elencabili: l’impoverimento della qualità media del pop italico, fatto da interpreti senz’anima di brani scritti da stessi autori privi di piglio; il generale asservimento della critica a strutture o metri di misura fondati su standard poveri, per una critica che “parla di musica” senza “parlare davvero di musica” e, in fondo, neanche più di costume; l’eccessiva prossimità e complicità tra musicisti, produttori, uffici stampa, critici e organizzatori festivalieri, che genera talvolta un cortocircuito di ruoli, responsabilità, filtro, giudizio critico; la diffusa divaricazione tra formazione musicale istituzionale – anzitutto i Conservatori – e la pratica del fare musica non di tradizione classica, che penalizza la musica italiana, favorendo spesso una bassa qualità media nel suonare e nell’arrangiare. Detto ciò, sono molte le esperienze critiche e produttive che apprezziamo e seguiamo, così come gli artisti che ascoltiamo, perché bravissimi: Architeuthis Rex, HOFAME, I Camillas, X-Mary, N_Sambo, vonneumann, Homunculus Res, Ezio Piermattei, Flavio Scutti, i gruppi della Lepers, Davide Brace e la Tafuzzy Records, Aldo Becca, Andrea Lepri, Matteo Allodoli, Maisie, WOW, Quiroga, Bradipos IV, Le Forbici di Manitù, Giacomo Toni, Mamuthones…
Avete progetti per il futuro? Di certo altri dischi immagino…
Qualcosa di diverso dalla forma canzone è già pronto, e forse presto vedrà la luce; abbiamo inoltre iniziato a lavorare su nuovi brani cantati su testi di Mariella. La vera novità è l’incontro con Stefano Costanzo, batterista e compositore, anch’egli di origini casertane, già negli Slivovitz, che abbiamo più volte ascoltato e apprezzato in altri progetti di sperimentazione e improvvisazione (Tricatiempo, con Roberto Bellatalla e Roberto Fega, ad esempio). Stefano ci affiancherà nel riarrangiare i brani di Liberty, che vorremmo suonare dal vivo, e nella lavorazione delle composizioni per il nuovo album, che stiamo già scrivendo. Ne siamo entusiasti!