KING HANNAH, I’m Not Sorry, I Was Just Being Me
Uno dei migliori esordi di questa prima metà dell’anno? Sì, sicuramente i King Hannah hanno realizzato un album convincente sotto ogni aspetto, per quanto si riallacci a una concezione di alt-rock chitarristico e sghembo che discende da tutte le PJ Harvey (era Rid Of Me) del nostro sacrario collettivo. Composto e registrato nel giro di otto mesi, I’m Not Sorry, I Was Just Being Me se ne frega, sin dal titolo, di tanti ragionamenti e fa seguito all’ep Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine del 2020, uscito sempre su City Slang, con presupposti in fondo vecchia scuola: unire ruvidezza e vulnerabilità, oltre che suonare in maniera autentica, senza edulcorazioni di sorta. Tutto molto so 90s, e tutto molto bello. La voce di Hannah Merrick, cresciuta nel Galles, è in realtà calda come un faro nella notte, mentre le linee chitarristiche di Craig Whittle sgorgano blues del Delta dietro a ogni piega di songwriting: l’opener “A Well-Made Woman” è un esempio calzante. Il duo di Liverpool tira giù un bel pezzo dietro l’altro, destreggiandosi tra elettricità, shoegaze con le sagome di Mazzy Star e Kurt Vile ben in mente, retaggi di Americana e testi ermetici nell’innescare l’emotività con formule spesso reiterative e una spruzzata di dark humour per niente scontato. “All Being Fine” si muove sul sottile confine tra ciò che suona familiare – persino il bagnare il letto in tenera età – e ciò che suona sinistro, proprio come la più perversa e marziale “Big Big Baby” (I hope you choke on, on a dumpling / At least that would be mildly fun / And more exciting than just sitting / Watching you eat them one-by one), tra un lamento slowcore sull’inutilità della giovinezza su mood da Bill Callahan (“Ants Crawling On An Apple Stork”, affidato alla voce di Whittle) e i quasi otto minuti umorali di Merrick in “The Moods That I Get In”, a congiungere almeno idealmente Anna Calvi, Courtney Barnett e un’altra Harvey, quella di White Chalk, sino alla conclusione-manifesto: And if you do not like / What I’m singin’ about / Well, thеn you really do not have to listen. Si aggiungono tre strumentali d’ambiente, l’introspettivo duetto con il sorriso sulle labbra e l’improbabile citazione dell’attore Steve Carell della title track, il contributo aggiuntivo dei musicisti Ted White, Jake Lipiec e Olly Gorman. In più, la ballad “Foolius Caesar” trasporta gli amati Portishead su scenari da brughiera e il gioco di semi-spoken in “Go-Kart Kid (Hello No!)” deflagra in rumorismo a combustione sostenuta. Merrick e Whittle hanno approfondito conoscenza reciproca lavorando nello stesso pub e ce lo raccontano a modo loro, con poche parole, nel liberatorio brano “It’s Me And You, Kid” di chiusura: I thank God / The day we met in the gross bar. Ringraziamo anche noi, Dio o chi altro ci abbia messo lo zampino, nell’attesa di (ri)vederli dal vivo a giugno in Italia.