KHALAB, Layers
Ho conosciuto Khalab la prima volta nel 2015 nel contesto ideale: durante un live. Nel suo caso è stato in occasione della prima edizione del F.R.A.C. Festival nel Palazzo Rinascimentale di Aieta (CS), una cornice perfetta per la proposta sperimentale e innovativa per l’Italia in quegli anni e per la Calabria. Innovazione e tradizione che Khalab ha sempre mescolato nei suoi lavori e che ritroviamo sotto una lente diversa anche in Layers, pubblicato ad agosto per Hyperjazz Records. Una lettura nuova, data da una maturazione artistica costante e progressiva: all’inizio la produzione era basata sull’utilizzo preponderante di strumenti digitali, oggi invece c’è una modalità di scrittura quasi orchestrale e collettiva, dato che con Layers si passa a una composizione quasi del tutto umana degli elementi di un disco. Mi riferisco alla presenza di persone che hanno materialmente registrato le varie parti contribuendo all’identificazione sonora dell’insieme, di quegli strati quindi che partono dalle esperienze personali di Khalab per codificarle attraverso note, ritmi e melodie. Italiano di origine ma con lo sguardo sempre rivolto sia a Sud del Mediterraneo, sia al Nord Europa (Inghilterra come luogo di ricomposizione dei linguaggi ancestrali e tradizionali dell’Africa, tradotti in quelli del presente per essere maggiormente comprensibili ai più). L’afrofuturismo – da sempre codice univoco dietro ogni lavoro di Khalab – è in Layers interpretato insieme ad alcuni degli attori e delle attrici che alimentano la cosiddetta scena del New Jazz, da Tamar Osborn, ormai parte integrante di una ideale band “Khalab” con gli italiani Tommaso Cappellato e Clap! Clap!, alla trombettista britannico-bahreinita Yazz Ahmed, insieme a Grove (vocalist/producer di Bristol), al polistrumentista e sempre più acclamato Tenderlonious, la cantante jazz italiana Alessia Obino e Joshua Idehen.
C’è la solita aura di fascino e mistero che avvolge ogni lavoro di Khalab, anche per via dell’uso di strumenti musicali appartenenti a tradizioni distanti da noi in termini fisici e storici: la m’bira, ad esempio, originaria dell’Africa Sud Orientale e usata in Mental Coach dal compianto Gabin Dabiré. Evocazioni che arrivano però anche dai canti, dalle trame vocali di Alessia Obino nel brano di apertura “Drone Ra”, chiaro riferimento al Cosmic Jazz di Sun Ra. La ciclicità ritmica ossessiva preponderante nei dischi precedenti, in particolare in Black Noise 2084 del 2018, che è un po’ l’inizio di questo percorso concluso con Layers, lascia più spazio al dinamismo degli strumenti a fiato presenti in tutti i brani e a momenti più “jazz oriented” come in “Female Side”, dato il tocco smooth jazz di Tommaso Cappellato. C’è un equilibrio diverso in Layers, uno studio diverso del suono stimolato proprio dalla presenza di menti e stili eterogenei che guidano e si lasciano guidare, determinando quella creazione di strati che sono le storie geografiche e sociali raccontate spesso attraverso la musica e i suoi mezzi ma anche attraverso le parole (questa volta meno strumenti e più canto). È la fine sì di un processo iniziato con Black Noise 2084 e definito attraverso M’Berra e le compilation Hyperituals, ma è naturalmente anche l’inizio di qualcosa di nuovo. Non un viaggio dritto che inizia da un punto A e finisce ad un punto B, ma un percorso ciclico, come la vita, in cui l’inizio e la fine coincidono ma non sono mai uguali.